Giorgio Napolitano, «nuovo Capo dello Stato». Il primo presidente «ex comunista» della storia della Repubblica, come si vuole sottolineare, è anche il primo presidente della storia chiamato a un secondo mandato. Era stato eletto sette anni fa, tra furori e polemiche. Non infondate. Perché arrivava al Colle sostenuto da una maggioranza di parte: un centrosinistra in guerra armata contro il centrodestra. Nei sette anni che ha alle spalle, è diventato il presidente di tutti, il più popolare dei politici in campo. Continuerà ad esercitare questo ruolo, ne siamo certi. I maggiori partiti gli hanno chiesto ieri di restare. Lui non voleva. In un’intervista al direttore della Stampa qualche settimana fa invitava a respingere «aspettative salvifiche» sulla sua persona
Ma ieri ha dovuto accettare dopo i ripetuti rifiuti. Per «salvare» una politica inconcludente e stremata, dominata da partiti, ciascuno dei quali - a cominciare dal maggiore, il Pd - incapace di uscire dalla valutazione dell'interesse proprio. Perchè l’immobilismo dei grandi elettori rischiava di travolgere le istituzioni. Così con la rielezione del vecchio Capo dello Stato, si conferma quel principio per cui, talora o spesso, in democrazia le crisi politiche più difficili producono gli uomini in grado di affrontarle. Napolitano è certamente uno di questi. Già nel novembre 2011, con l'Italia a un passo dal fallimento, trovò una via di uscita dall'emergenza, con l'idea del governo guidato da Mario Monti, sostenuto dalla «strana maggioranza», ossia dal centrodestra e centrosinistra, frazioni in guerra fin dal giorno prima. Oggi è l'uomo sul quale si può puntare per uscire dallo «stallo». Egli ci proverà. Senza risparmiarsi. Ma non può fare da solo. Ha detto, giustamente, di essere spinto da un sentimento di «responsabilità», confidando che analoga responsabilità ci sia da parte degli altri. Succederà? Lo vedremo nelle prossime ore.
Cominciando dalla ripresa delle consultazioni per formare il nuovo governo. La prima questione, per superare un immobilismo drammatico. Nessuno meglio del presidente può cogliere i duri fatti che accerchiano il Paese. Un giovane su due non ha lavoro. Ogni giorno chiudono decine di aziende. Un debito pubblico enorme, il terzo del mondo, costringe lo Stato ad una pressione fiscale sempre più intollerabile per famiglie e imprese. Secondo Confindustria la macchina dello Stato è tanto straripante di personale quanto inefficiente. Il suo costo, sempre secondo Confindustria, è di 73 miliardi. E se lo Stato è indebitato, molte imprese chiudono perché non vedono onorati i propri crediti. Si è ad una disperazione sociale che, talora, induce al suicidio. Per questo é forte e permanente, da parte di industriali e sindacati, la richiesta di un governo subito. Così come la prospettiva di elezioni anticipate, secondo tutti i sondaggi finora conosciuti, è invisa alla maggioranza degli italiani.
La strada é strettissima. Perché le questioni economiche e sociali si intrecciano con le complessità politiche. Napolitano ha chiaro il quadro uscito dalle urne. E ha fatto sempre capire di non credere a fumosi obiettivi di cambiamento che poggiano sulle nuvole dei desideri senza numeri in parlamento. Gli elettori non hanno dato né al centrodestra, né al centrosinistra i seggi per governare da soli. Hanno premiato, in misura notevole, un movimento come il 5 Stelle che vuole smantellare il sistema dei partiti. Di tutti i partiti, compreso il Pd che invece ai 5 Stelle cerca di legare il suo futuro. In questo quadro si possono seguire due strade. O lavorare per un governo di minoranza che porti il Paese rapidamente a nuove elezioni. Oppure favorire, nei modi possibili, un governo che possa essere accettato (se non sostenuto) dalla forze maggiori. Per formare quell'esecutivo di scopo invano cercato nella prima fase delle consultazioni dal presidente appena rieletto. Un esecutivo limitato nei compiti e nel tempo, per arrivare a nuove elezioni dopo aver condotto in porto misure contingenti ma importanti: riforme elettorali, riduzioni fiscali, taglio della spesa pubblica e dei costi della politica. Il presidente ha già scelto con chiarezza la seconda strada. Ha prefigurato un percorso con questo fine quando, nominando i saggi per elaborare una agenda di governo, ha messo in squadra, insieme a tecnici di valore, anche esponenti autorevoli di Pd, Pdl e gruppo Monti. Su questa strada continuerà a muoversi. Avendo peraltro, adesso, un riferimento programmatico adeguato proprio nei documenti che i saggi hanno elaborato e dove tutte le misure possibili, per fronteggiare la crisi, sono indicate: dall'adeguamento dell'Imu al consolidamento del sostegno sociale ai gruppi colpiti dalla crisi, dai provvedimenti per favorire la concorrenza a quelli per spingere lo sviluppo delle piccole imprese. Tutto questo tenendo la barra dritta su un sistema di relazioni internazionali per restare strettamente legati all'Occidente e fermamente posizionati nell'Europa. Dal momento che i nostri guai non vengono dall'Europa e dai complotti dei mercati, ma dai debiti che si sono fatti in casa nostra, ai quali possiamo sopravvivere, come ieri ricordava il ministro all'Economia Vittorio Grilli, solo se troviamo nei mercati chi ci presta i soldi.
Da un presidente come Giorgio Napolitano, poi, ci si può aspettare una continuità nel fronteggiare la crisi istituzionale e del potere che con la crisi economica si combina in un rapporto di causa ed effetto. Non può attuare riforme e sostituirsi ai governi, certo. Ma continuerà a sollecitare svolte forti e serie perché nuovi equilibri tra i poteri si formino. Da capo del Consiglio superiore della magistratura, intanto, può e deve chiedere, ripetendo iniziative già assunte, che politica e giudici compiano quei passi indietro necessari perché la giustizia non sia più un campo di battaglia. Muovendosi nella linea che lo ha già spinto a raccomandare ai partiti di evitare «tensioni destabilizzanti», e a ricordare ai giudici il dovere di guardarsi «dall'attribuirsi missioni improprie», rispettando con scrupolo i principi del «giusto processo». Da presidente poi non può non cogliere la richiesta diffusa e forte nel Paese di una politica che si allontani dagli affari, che riscopra il gusto delle idee e della sobrietà. Tutto questo Napolitano lo farà. È già molto. Ma sarà poco se i partiti non faranno, diversamente da quel che è avvenuto finora, la loro parte. Devono saper dare al Paese un governo e ritrovare con gli italiani un rapporto perduto. Non ci sono formule magiche per esorcizzare la protesta. C'è invece il bisogno di ascoltarne le ragioni, spiegare la verità delle cose e saper comunicare la visione di un futuro, sapendo garantire decisioni adeguate nel presente. Il dibattito eterno sul «cambiamento», cui assistiamo da mesi, senza misure concrete, si perde nel vuoto. E di questo vuoto, come ricordava l'altro giorno il cardinale Angelo Bagnasco, capo dei vescovi, «la gente non ne può più».
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