Ora basta. Non è più possibile tollerare quanto sta avvenendo. La debolezza del Pd ha rotto gli argini e sta paralizzando il Paese. Inammissibile. Quello che sta avvenendo in queste ore all’interno del partito non ha precedenti in settant’anni di storia repubblicana. A confronto i vecchi capi democristiani, ai tempi descritti come lupi mannari, appaiono agnellini spersi nel buio. Il regolamento dei conti dentro il Partito Democratico fa scolorire, come fossero vecchie immagini in bianco e nero, le lotte intestine della Balena Bianca che impedirono per ben due volte a Fanfani di arrivare al Quirinale o ad Arnaldo Forlani di chiudere l'accordo nel 1992. Poverini. Ieri in aula si è consumato un tradimento di massa come mai era accaduto. Un terzo del gruppo parlamentare ha voltato le spalle a Romano Prodi. E dire che, solo poche ore prima, la sua candidatura era stata accolta all'unanimità e, addirittura acclamata. Il voto del pomeriggio, per quanto incerto, sembrava preludere ad una conclusione positiva. Non immediata magari. Ma certa a partire dal successivo scrutinio. Invece il disastro: nelle urne sono comparsi più di cento franchi tiratori a conferma che le ovazioni della mattina erano solo il saluto di un gruppo pronto a tradire. La valanga ha colpito anche Matteo Renzi che, affrettatamente, si era premurato a salire sul carro del presunto vincitore. Certamente nella speranza di mettere anche il suo timbro sulla vittoria di Romano Prodi. In serata è stato il primo a sfilarsi giudicando concluso il tentativo dell'ex premier che prudenzialmente era rimasto in Mali. A qualcuno, quest'assenza, è sembrato un atto di arroganza. Viste come si sono messe le cose, però, c'è da dubitare che il viaggio a Roma del professore avrebbe cambiato le cose.
Che cosa accadrà adesso? Chi sarà il prossimo candidato e chi lo dovrà scegliere? Non sappiamo rispondere al quesito e, vista la situazione, non è neanche importante. Adesso prima di un nome serve un metodo. Nel Paese ci sono solo tre minoranze. I partiti devono prendere atto che il risultato elettorale di febbraio non ha designato un vincitore. Il primo ad assumerne consapevolezza deve essere il Pd che in questi cinquanta giorni ha fatto tutto e il contrario di tutto. Dapprima Bersani ha provato il governo del cambiamento, cercando inutilmente la sponda con Grillo. Subito dopo la prima inversione: ha giocato la carta Marini al Quirinale stringendo l'accordo con Berlusconi che, in campagna elettorale aveva definito il giaguaro da smacchiare. Ieri una nuova torsione mettendo sul tavolo la scelta identitaria con la candidatura Prodi. Tre fallimenti che hanno distrutto la leadership del segretario e la credibilità del partito. Adesso non resta che cercare una soluzione condivisa per fare poche cose urgenti: innanzitutto il Presidente della Repubblica e subito dopo un governo che abbia poche cose molto urgenti in agenda. L'emergenza economica e la legge elettorale su tutte (anche se la vera stabilità si può ottenere solo con una modifica costituzionale delle forme di governo). Poi di nuovo al voto con un sistema che davvero consenta la sera delle elezioni di conoscere il nome del premier e la maggioranza che sorreggerà il suo governo.