Nelle fiction televisive arriva la penultima puntata in cui in genere non si capisce niente. Come finisce o nasce un amore, chi è l’autore di un delitto. Nella drammatica fiction sulla formazione del governo, ieri sera è andata in onda esattamente una sceneggiatura del genere.
C’è stato un convulso andirivieni di annunci, prima su un possibile rinvio a venerdì del resoconto al Quirinale, poi di un anticipo a domani sera. Si è detto anche che Bersani era diventato più fiducioso dopo una supposta apertura di PdL e Lega.
Interpellati direttamente, Alfano e Maroni ieri sera me lo hanno escluso con decisione, ma si sa che la politica è il gioco delle carte coperte. Una ristretta commissione parlamentare che provveda celermente alle necessarie riforme costituzionale - da noi caldamente auspicata nei mesi scorsi, sull'esempio di quella dei 75 che ha redatto materialmente la Costituzione - verrebbe accettata da tutti. Ma non basta. Dice Alfano: come faccio a presentarmi agli elettori dicendo che con lo 0,3 per cento dei voti più di noi la sinistra si prende tutte e quattro le cariche istituzionali più importanti lasciando a noi la presidenza della Bicamerale? Bisogna almeno che il capo dello Stato sia indicato da noi e che ci sia un programma di governo condiviso sui provvedimenti più importanti.
La partita chiave si gioca perciò sul successore di Napolitano al Quirinale. In altri momenti, dinanzi ai nomi di Giuliano Amato e soprattutto di Franco Marini, Berlusconi avrebbe fatto salti di gioia. L'ex presidente del Senato è in assoluto la personalità del centrosinistra con la quale il Cavaliere ha avuto il rapporto personale migliore. Ma il PdL non vuole che la carica più importante («Il capo dello Stato vale cinque governi», ci diceva ieri Renato Schifani) sia ancora nella disponibilità del Pd. Se quello 0,3 per cento dei voti in più l'avesse guadagnato Berlusconi, Bersani avrebbe accettato forse senza battere ciglio Gianni Letta, stimato in modo trasversale. Ma oggi…. Lamberto Dini? Un tecnico? Chissà. Il presidente incaricato vuole separare la discussione sul governo da quella sul Quirinale. Berlusconi vuole evitare scherzi ed esige di trattare insieme. Napolitano non si scandalizza all'idea che le due discussioni procedano in parallelo. È certo che non accetterà la proposta di formalizzare l'incarico a Bersani se le carte restano ancora coperte.
Quando nacque nel '76 il «governo della non sfiducia», Andreotti andò alle Camere con l'appoggio esterno del Pci certificato da fior di patti formali e da una pronuncia della direzione comunista. Oggi non si può giocare su chi esce dall'aula o vi rientra. Dunque? A Bersani viene chiesto uno scatto di fantasia.
Al di là dei muscoli in mostra, sono pochi quelli del Pd che vogliono votare all'inizio di luglio. I sondaggi, per quello che valgono, annunciano una vittoria stretta del Cavaliere. Non sappiamo che cosa accadrebbe al Senato, sappiamo che alla Camera i duecento deputati del Pd frutto del premio di maggioranza andrebbero a casa quattro mesi dopo esserne usciti. Una prospettiva non desiderabile.
Ecco perché se nelle prossime ore il presidente incaricato non si presenterà al Quirinale con una maggioranza certificata,
Napolitano giocherà una nuova carta. Il «governo del presidente», indicando un nome nella certezza preventiva di avere un governo con una maggioranza solida.