di GIUSEPPE SAVAGNONE
Fino a poche settimane fa, che due Papi si incontrassero, abbracciandosi e pranzando insieme, sarebbe stato considerato da chiunque una ipotesi semplicemente assurda. Ieri è accaduto, per la prima volta nella storia. La straordinaria vicenda, iniziata con la sofferta rinunzia di Benedetto XVI e continuata con il Conclave e l’elezione di Papa Francesco, ha trovato il suo compimento simbolico con la visita fatta da quest’ultimo al suo predecessore. I due protagonisti si sono finalmente ritrovati insieme, in un ideale passaggio di consegne. Sappiamo poco dell’incontro. Si sono abbracciati e poi hanno pregato. «Siamo fratelli», ha detto Bergoglio a Ratzinger, che voleva offrirgli il posto d’onore. E ha voluto che si ritrovassero inginocchiati allo stesso banco. Il Papa teologo ha dunque lasciato la guida della Chiesa, tanto amata da rinunziare per il suo bene al proprio ruolo di prestigio e di potere, ad un Pontefice che si preannunzia soprattutto pastore e che, pur ponendosi sicuramente sulla linea di una sostanziale continuità con la tradizione, a differenza del suo predecessore sembra voler sottolineare soprattutto le esigenze di un suo forte rinnovamento.
Ne sono una evidente testimonianza i gesti di rottura, rispetto al passato, con cui Francesco sta contrassegnando i primi passi del suo pontificato. Già il nome scelto ha inaugurato qualcosa di nuovo. Ma soprattutto nuovo è lo stile con cui egli si rapporta alla gente. Se ne aveva avuto un indizio in quel primo saluto, dal balcone della basilica di San Pietro, la sera della sua elezione. Il suo semplice, cordiale «Buonasera», la sobrietà del suo abbigliamento, con la croce di ferro al petto, la richiesta rivolta alla folla di invocare in silenzio la benedizione su di lui, il suo inchinarsi per riceverla, il suo definirsi «vescovo di Roma», ricordando che a caratterizzare l’autorità di quest’ultimo nella Chiesa è non un potere, ma un «primato nella carità», erano già segnali eloquenti di una svolta.
Altri hanno fatto seguito a questi: la sua scelta di stare in mezzo alla gente, come un semplice parroco, alla fine della celebrazione nella Chiesa di Sant’Anna; il suo cordiale appezzamento per il lavoro dei giornalisti, nell’incontro con loro, e il suo delicato riferimento alla varietà delle loro posizioni religiose, nella benedizione finale; la sua richiesta che alla messa celebrata in Santa Marta fossero presenti i giardinieri e gli addetti alle pulizie; la scelta di inaugurare il triduo pasquale nel carcere minorile di Casal di Marmo, invece che a San Pietro o a San Giovanni in Laterano, lavando i piedi a dei giovani detenuti; la sua rinunzia al trono, sostituito da una semplice sedia. Sono comportamenti che valgono più di cento discorsi. Diceva Paolo VI che «l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri». Da troppo tempo la giusta preoccupazione per l’ortodossia (letteralmente: la giusta dottrina) aveva fatto mettere in ombra, nella Chiesa, l’importanza altrettanto decisiva dell’ortoprassi (letteralmente: il giusto modo di agire). Da troppo tempo la gente riceveva da essa messaggi in linea di principio ineccepibili, stentando però a ritrovarne un corrispettivo evidente nello stile di vita dei cristiani, in primo luogo degli stessi pastori del popolo di Dio.
Questo non vale, in realtà, per i Papi. Nessuno può negare che le figure degli ultimi Pontefici siano state un importante punto di riferimento per credenti e non credenti, non solo per il loro insegnamento, ma anche per la nobiltà e la coerenza spirituale della loro vita. Ma non hanno offerto l’immagine, che dà invece con forza quella di Francesco, di una Chiesa che si rimette drasticamente in discussione alla luce del Vangelo. Con lui, è come se lo stesso fraticello di Assisi, di cui ha voluto prendere il nome, fosse stato elevato alla cattedra di S. Pietro, entrando in rotta di collisione con tante forme e tante prassi, frutto dell’incrostazione dei secoli, ormai decisamente anacronistiche. Si ha l’impressione dell’incrinarsi di una pesante armatura, che veniva considerata dalla Curia romana un segno di prestigio spirituale, e che in realtà era diventata da tempo una barriera tra la Chiesa e la gente.
Papa Bergoglio non ha ancora esposto un programma del suo pontificato. Ma si vede chiaramente, dai suoi gesti simbolici, che ha un progetto. Le parole chiave di esso sono emerse nei suoi primi discorsi: «Misericordia», «perdono», «tenerezza», soprattutto «povertà». «Come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!», ha detto parlando ai giornalisti. È la traduzione in parole dello stile che ha cercato di testimoniare in prima persona.
Ed è un importante affermazione della sua volontà di tornare al Concilio. «Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza», diceva il grande documento conciliare sulla Chiesa, la Lumen Gentium.
E all’inizio della Gaudium et Spes, il documento conciliare sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, si legge: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore».
Papa Francesco ha voluto fare dell’inizio del suo pontificato un segno visibile e tangibile che queste non sono solo parole, ma definiscono l’essenza della Chiesa e che ad esse i suoi membri - cardinali, vescovi, preti, diaconi, religiosi, semplici laici - devono sempre più ispirare il proprio modo di vivere. Per questo le ha volute applicare in primo luogo a se stesso, per insegnare agli altri a fare altrettanto.
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