Beppe Grillo piccona ancora. Ora tuona contro l’articolo 67 della Costituzione, per cui un parlamentare non può subire «vincolo di mandato».
Per lui onorevoli e senatori sono «vincolati» eccome. In quanto eletti nella lista del partito che fissa impegni di programma con gli elettori. La questione è complessa. Non si contrappongono una ragione e un torto. Ma due ragioni. La Costituzione, è vero, vuole che il parlamentare si dedichi al servizio del Paese con il massimo della libertà. Ma è indubbio che ogni parlamentare è tenuto al rispetto degli impegni liberamente assunti con gli elettori. Può altrettanto liberamente tradirli, aderendo a parti politiche con programmi diversi? O addirittura opposti?
Del resto, la disputa tra disciplina o libero pensiero è antica. Ne dá conto Ugo Magri su La Stampa (5 marzo), elencando i variegati precedenti della storia. Già Edmunde Burke teorizzava che «chi viene eletto rappresenta l’intera nazione e non soltanto i propri sostenitori». Ma il filosofo Jean Jacques Rousseau la pensava in maniera opposta. L’Ancien Regime ammetteva solo «il mandato operativo». Invece «i rivoluzionari francesi lo vollero libero». Cosi pure il nostro Statuto Albertino. Adesso, nella vecchia Europa, scrive Magri, «regna la democrazia rappresentativa, l’autonomia di giudizio è considerata un bene prezioso...».
Oggi, però, la questione è diversa. Si intreccia con l'anomalia che pure Magri riconosce. In Italia deputati e senatori non sono liberamente eletti. Sono designati e imposti dai partiti. Attraverso liste che l’elettore non può mutare. Abbiamo parlamentari strutturalmente dipendenti dai vertici che li nominano. Si è così a un quadro ignobile. Non c’è mandato imperativo che vincola il deputato o il senatore. Ma c’è un mandato imperativo che di fatto vincola gli elettori. I quali possono solo votare per il partito. Dovendo poi accettare scelte d’imperio sui candidati ai seggi in Parlamento. Il parlamentare è così ipervincolato nel momento della elezione, dipendendo in tutto dal capo o dai capi che lo collocano ai primi posti della lista bloccata. Ma è assolutamente libero, in base all'articolo 67, nel momento dell'azione, potendo rimuovere dipendenze e appartenenze. Questo è lo stato delle cose. Sono allora fuor di luogo certe indignazioni da «anime belle». E fuori tono i richiami ai valori di autonomia e libertà di coscienza. Poi, nella disputa, bisogna tener conto della realtà com'è. Non di come si vorrebbe che fosse. Dietro i frequenti cambi di casacca, di cui le cronache parlamentari sono ricche, ci sará qualche crisi di coscienza onesta. Ma nella maggioranza dei casi conosciuti, siamo all'andazzo denunciato molto più di un secolo fa da Johann Wolfgang von Goethe. In politica «come su un letto di malattia ci si gira da una parte e dall’altra pensando di passare ad una posizione più comoda».
A Palermo, in Municipio, si aspetta l’esito degli accertamenti dopo le malattie di massa. Chiusa la Gesip, azienda carrozzone dai molti dipendenti, il Comune decide di destinare numerosi «comunali» alle funzioni svolte da loro. Racconta Giancarlo Macaluso, sul nostro giornale nella cronaca di venerdì 15 febbraio, che a questo punto s’avanza un esercito «di allergici, di intolleranti e di malati». Destinati a funzioni «di custodia e pulizia», quasi tutti disattendono l'ordine.
Attraverso certificati medici in cui si denuncia di tutto: «Dal mal di schiena al mal di testa... dai dolori cervicali alle ginocchia malandate». Ciascuno vuole vedersi confermato il malanno. Col risultato di svolgere una mansione inferiore conservando la retribuzione superiore. Aspirazione antica.
Scriveva Giuseppe Prezzolini nel suo Codice della vita italiana: «C’è un ideale assai diffuso in Italia, guadagnar molto faticando poco. Quando questo è irrealizzabile subentra un sottoideale: guadagnare poco faticando meno».