Mercoledì 27 Novembre 2024

Dalle urne arrivano strane sorprese

Da queste elezioni, nella grande crisi, si aspettava una risposta chiara. Per un governo forte. Ma dalle urne esce un dato opposto. Un contesto frammentato, con maggioranze di difficile formazione e il rischio di governi deboli. Ha vinto Grillo. Carismatico, istrione, consumato protagonista delle piazze. Si può dire, e lo abbiamo più volte detto, che davanti alla crisi ha spregiudicatamente messo in campo un intreccio di promesse impossibili. Ma ha saputo coniugare la protesta contro la politica «degli scandali e delle ruberie» con il disagio sociale legato agli effetti delle necessarie politiche di rigore. E, se non altro, ha il merito di avere canalizzato verso le urne, democraticamente, rabbia e tensioni che altrove hanno portato a ben altri disastri.
Se Grillo ha vinto, hanno perduto i protagonisti della politica conosciuta. I partiti tradizionali hanno annaspato. Alle moltitudini crescenti, indignate dagli scandali e colpite da tasse e disoccupazione, hanno balbettato propositi di rinnovamento senza fatti. Non hanno modificato il sistema elettorale, ripetendo lo scandalo di deputati e senatori «nominati» e non «eletti». Non hanno ridotto, in misura visibile, i costi della politica e le tante strutture inutili che li provocano (a cominciare dalle province).
Ma soprattutto non hanno saputo comunicare una visione della crescita e del futuro. Tutto è stato appiattito su proposte di piccolo profilo.
In questo quadro possono spiegarsi anche le significative sorprese venute fuori dalle urne. Il Pdl e Berlusconi ottengono un risultato straordinario. Da nessuno previsto (ma sondaggisti e istituti demoscopici dovranno riflettere sul loro mestiere). Non conosciamo, quando andiamo in macchina, l'esito definitivo. Ma, rispetto alle previsioni della vigilia, il successo del Centrodestra è netto. Che ha nel suo leader, Silvio Berlusconi, l'indiscusso mattatore. Doveva straperdere. Invece è di qualche punto sopra o sotto. Dunque ha vinto.
Il Centrosinistra ha giocato di rimessa. Certo dei pronostici che lo davano da mesi per favorito, ha sottovalutato il carisma del Cavaliere, consentendogli di occupare il centro della scena per poi rincorrerlo su idee-forza inventate da lui. A cominciare dalla questione fiscale: dall'Imu in poi.
Monti ha deluso. Il proposito di diventare ago della bilancia dei governi possibili sembra fallito. Ha cercato di cancellare l'immagine che gli avversari gli attribuivano di «uomo delle tasse». Non ha saputo essere efficace nel prospettare con chiarezza le riforme per la ripresa. Questo è successo ieri. Ora si deve parlare d'altro.
Ad urne chiuse, adesso, bisogna partire dallo stato delle cose. Dai duri fatti della realtà. Dall'Italia che c'è, non da quella che si vorrebbe ci fosse. L'anno è cominciato con stime dai colori foschi. La nostra ricchezza (il Pil) regredirà più del previsto. La ripresa è rinviata al 2014. Ci sarà meno lavoro, la disoccupazione crescerà. Su questo hanno pochi dubbi analisti e osservatori, dall'Istat, al Fondo monetario alla Ue. Il vicolo è cieco, come si dice, e non c'entrano le politiche del governo guidato da Mario Monti. Il quale, dimezzando lo spread, ha evitato la catastrofe. Tutti devono invece riconoscere che siamo agli effetti conseguenti di un sistema bloccato: non cresciamo più, da venti anni almeno. Le fabbriche sono in tilt. Siamo ormai ai dati peggiori dell'ultimo quarto di secolo. Non solo non si cresce ma si regredisce. Perché il sistema industriale è strozzato da diseconomie sempre più evidenti: poco credito, troppe tasse, rigidità eccessive nel lavoro, poche strutture di sostegno, materiali e immateriali.
Siamo al punto di arrivo di una inversione scriteriata tra spesa pubblica ed economia privata che si protrae da due decenni almeno. Perché se le imprese hanno perso progressivamente terreno, la spesa pubblica è andata al galoppo. La nostra produttività è ferma al '92, dice l'Istat. Ma Marcello Degni e Paolo De Ioanna, nel loro libro «La voragine», ricordano che in soli dieci anni (dall'80 al '90) il debito pubblico è passato dal 56,1% a quasi il 100% del Pil.
Questa inversione tra pubblico e privato è il dato cruciale col quale fare i conti. Il debito statale lambisce la linea dei duemila miliardi. Il prelievo fiscale per farvi fronte è ormai al 45%. Ciascuno deve lavorare sei mesi per saldare i propri conti col fisco. Il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, dice chiaro e tondo che con questi numeri non c'è crescita possibile. Da qui si precipita al groviglio letale. Troppo debito, troppe tasse, poco lavoro, niente crescita. Bisogna correggere questo equilibrio perverso. E bisogna, purtroppo, farlo in condizioni disperate. Quando il corpo produttivo è gracile, ridotto a puro scheletro. Ma i vincoli sono ineludibili. Bisogna tenere a bada i conti pubblici. Il deficit non può crescere perché diventa inevitabile il ricorso a nuove tasse. Si può gridare contro lo spread. Prefigurarlo come frutto di forze malefiche. Gli uomini in nero e i nuovi Dracula rossi di sangue che cospirano contro i deboli dei Paesi deboli. Ma è propaganda che non porta a nulla. Si può battere lo spread. Ma solo riducendo il debito e aumentando la produttività del sistema. Non si possono poi aumentare le tasse. L'unico modo per crescere è quello di ridurle per le famiglie e le imprese: potendo così le prime aumentare i consumi e le seconde le loro produzioni e il lavoro.
I nuovi equilibri sono difficili perché le risposte contingenti (meno spesa pubblica, meno tasse, più consumi, più produzione) devono essere spinte da riforme forti e da una nuova etica pubblica, fermamente legati all’Europa, che resta un ancoraggio irrinunciabile. Le riforme devono rompere l'eccesso di uno Stato invasivo e onnivoro. La nuova etica deve spingere ciascuno a considerare chiusa la fase in cui potevamo vivere al di sopra delle nostre risorse. E le amministrazioni pubbliche devono smettere di usare, come denunciava Padoa-Schioppa, «i soldi di tutti come fossero i soldi di nessuno».
Si aggiunge a tutto questo l'urgenza di un nuovo patto industriale, tra capitale e lavoro, come si diceva una volta. Le aziende devono potere ancorare le retribuzioni al merito e alla produttività. Si guadagna di più se si lavora meglio e di più. La Germania può sempre dipingersi come l'orco scuro. Senza dimenticare che la sua crescita è il frutto di un accordo virtuoso tra industriali e sindacati. Che ha visto seguire ai sacrifici di ieri la crescita e lo sviluppo di oggi. Con aumenti significativi nelle retribuzioni e nell'occupazione.
Scelte di riforma difficili, certo. Per le quali sono indispensabili maggioranze forti e governi autorevoli. I risultati delle urne ieri suggeriscono scenari opposti, al punto che non pochi esponenti di rilievo ipotizzano il ritorno a nuove consultazioni. Sarebbe la risposta peggiore. I politologi possono affermare che i tre poli in cui si sono concentrati i consensi, ossia Centrosinistra, Centrosinistra e Movimento cinque stelle, non offrono soluzioni di maggioranza visibili. Da qui la politica deve saper dare il meglio di sé. Nel momento più grave della crisi, nel pieno della bufera finanziaria che si avvicina a scenari greci, si è giunti alla "strana maggioranza" e al governo Monti. La crisi non è finita. I mercati manifestano già segnali di paura. Si saprà capire che maggioranze anche più strane, sono salutari per salvare il Paese? Problema aperto. Lo chiudano i partiti, vecchi e nuovi, nell'interesse dell'Italia.

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