Rino Formica, vecchia volpe socialista, diceva che la politica è sangue e mer... Se ne sta accorgendo a sue spese Mario Monti, che ha scoperto nel giro di qualche giorno quanto sia diverso essere parte da essere sopra le parti. Nel fondo dell'anima, la classe politica non ha mai amato il Professore. In larga parte lo stima e lo rispetta, ma l'idea che sia stato necessario un alieno per fare quello che parlamenti di destra e di sinistra non hanno saputo fare per legislature intere non è mai andata giù a deputati e senatori, soprattutto a quelli di PdL e Pd costretti a fare di necessità virtù. Gli uomini di Berlusconi (ministri e sottosegretari, soprattutto) si sono sempre sentiti espropriati del potere conquistato con le elezioni. Gli uomini di Bersani hanno dovuto rinviare di quasi un anno e mezzo l'appuntamento - probabile - con la vittoria. Si aggiunga che i principali partiti e l'Udc hanno dovuto sostenere con il loro voto provvedimenti necessari, ma pesantissimi come la più dura riforma delle pensioni d'Europa, una riforma del lavoro che ha scontentato tutti e soprattutto una raffica di tasse di cui l'Imu è stata il simbolo negativo.
Monti non ha mai avuto nelle sue apparizioni pubbliche contestazioni apprezzabili, ma i deputati e i senatori della maggioranza tornando nei loro collegi hanno toccato con mano il peso di quanto è accaduto e che i bilanci di fine anno hanno archiviato come la peggiore stagione del dopoguerra, con livelli di consumo che ci riportano indietro di trent'anni. Se Monti si fosse ritirato come Cincinnato ("ultima speranza per l'autorità del popolo romano", lo definì Tito Livio) sperando magari di essere richiamato da una nuova emergenza nazionale, tutti gli avrebbero tributato honores liquidatori. Ma la decisione di trasformarsi in parte attiva della contesa politica, opponendosi per forza di cose a quelli che erano stati i suoi maggiori sostenitori (PdL e Pd, per l'appunto) ha innescato una miscela progressivamente esplosiva. Seguendo l'antica lezione berlusconiana (le elezioni non si vincono lontani dalla tv), Monti ha dovuto lasciare le raffinate sfumature linguistiche e lo studiato understatement che tanto apprezzamento hanno riscosso in sede internazionale, per confrontarsi con le brutali analisi economiche di Renato Brunetta (PdL) e la visione antiliberista e iper keynesiana di Stefano Fassina (Pd).
Entrambi hanno sempre rappresentato l'ala più radicalmente antimontiana dei rispettivi partiti, ma se ne sono i responsabili economici vuol dire che Berlusconi e Bersani ne hanno piena fiducia. Si spiegano così le durissime reazioni di entrambi all'invito del Professore di «silenziare» Fassina (reduce peraltro da una eccellente affermazione alle primarie del Pd) e a paragonare implicitamente la statura fisica e accademica di Brunetta, che peraltro negli ultimi tredici mesi non ha lasciato passare giorno senza inondare la rete di slide per dimostrare che Monti sbagliava ogni mossa e che le pochissime azzeccate non erano merito suo. Nelle prossime settimane, prevedibilmente Monti starà più attento al linguaggio (cosa che non gli riuscirà difficile), ma fatalmente sarà lo scontro sui contenuti politici della campagna elettorale a farsi più duro.
Esclusa ormai in radice ogni forma di collaborazione con Berlusconi, il Professore punta a piazzare la coalizione centrista al secondo posto dopo quella progressista, ad impedire a Bersani di governare senza il proprio appoggio e addirittura a sostituirlo a palazzo Chigi. Bersani naturalmente farà di tutto per impedirglielo e Berlusconi pure, perché vuole essere lui l'interlocutore - oppositore privilegiato dell'alleanza «comunista» tra il segretario del Pd e Nichi Vendola. Non sarà un gioco di fioretto e il Professore, abituato a stare sulla scena come arbitro un gradino sopra gli altri, dovrà rassegnarsi al ruolo di bersaglio permanente da parte dei grandi partiti che ha osato sfidare.