In Sicilia una delle criticità più evidenti riguarda, ormai da tempo, lo smaltimento dei rifiuti. Spesso cataste di spazzatura ricoprono le nostre strade. Nella provincia di Palermo (Ato1), ancora fino a poche ore fa, si registravano giganteschi accumuli.
Quella dei servizi locali è una delle aree a gestione pubblica più problematiche perchè riguarda attività essenziali come l'acqua, i trasporti o la cura dei cimiteri e perché dalle modalità di resa dipende la stessa qualità della vita degli abitanti, per tacere degli effetti sulle imprese, del danno di immagine per il territorio e dell'impatto talora devastante sui conti pubblici. Periodicamente nel dibattito si riaffaccia, senza grandi successi, la necessità di una maggiore efficienza gestionale. Eppure i tentativi di intervenire, anche di recente, non sono mancati. La materia resta però fluida, specie dopo una recente sentenza della Corte Costituzionale. Può essere quindi utile tratteggiare, almeno per grandi linee, lo «stato dell'arte».
I circa 8 mila comuni esistenti in Italia hanno il controllo di 3.804 società di capitale che svolgono le attività più diverse; di queste, circa 1.100 si occupano di rifiuti, acqua, gas, energia elettrica, illuminazione stradale, aree a verde e servizi cimiteriali. Sono i cosiddetti servizi pubblici locali. Per avere un'idea della dimensione del fenomeno, basti considerare che vi lavorano 81 mila persone, con un fatturato annuo che si attesta attorno ai 16 miliardi di euro. Per quanto possa sembrare strano, queste società, tutte insieme, hanno prodotto nel 2010 un utile di circa 1,5 miliardi di euro. Negli ultimi tre anni soltanto il 6% di queste società è risultato costantemente in perdita.
Nonostante le cifre aggregate forniscano un quadro tutto sommato confortante, nei servizi pubblici locali si registrano però situazioni tra loro molto diverse. Nelle società quotate - che si occupano come ricordato di rifiuti, acqua, gas, energia elettrica, illuminazione pubblica, aree a verde e servizi cimiteriali - il costo del personale incide appena per il 19% della gestione, mentre in quelle controllate dai comuni il personale pesa per il 38%. Ecco allora che quando si parla di public utility, di ex municipalizzate o di servizi pubblici locali; quando si parla di liberalizzazioni o di privatizzazioni, in realtà si fa riferimento - senza distinzioni - ad un ampio ed eterogeneo raggruppamento di società che generano utili (più spesso al Nord) o scavano voragini nei conti dei comuni di riferimento (più spesso al Sud), che sono gestite come aziende (più spesso al Nord) o si qualificano come una sorta di ammortizzatore sociale, buono a creare improduttivi posti di lavoro (più spesso al Sud).
Il referendum sull'acqua pubblica, del giugno 2011, aveva abolito la norma che introduceva per la prima volta un principio generale: i servizi pubblici devono essere affidati per gara e non più direttamente dai comuni. Il successivo intervento del governo Berlusconi, dell'agosto del 2011, nel tentativo di colmare il vuoto legislativo, ha finito però con il riproporre l'articolo abrogato. Si è trattato, scrive La Voce, di «una decisione improvvida e sprovveduta» sulla quale però anche il Governo Monti ha costruito i suoi interventi; con il risultato finale che «gli ultimi cinque anni di tentativi di riforma del settore sono stati cancellati insieme agli sforzi, generosi ma tecnicamente molto discutibili, del governo Monti». Ma qual è ora il quadro dopo il colpo d'accetta della Corte Costituzionale? Qualche cosa sopravvive.
Intanto, resta in piedi il principio generale secondo il quale i comuni devono affidare, di norma, i servizi locali con gara ad evidenza pubblica e solo eccezionalmente possono procedere all'affidamento diretto, ad esempio, a favore di società sotto il loro diretto controllo. Peraltro in questo ambito può intervenire anche l'Autorità Antitrust. Ovviamente tutto ora dipende dalle scelte che vorranno fare i comuni. Certo la riforma dei servizi pubblici locali appare non più rinviabile ed addirittura inevitabile.
Le urgenze della finanza pubblica rendono infatti appetibili i servizi locali nella logica della loro dismissione, quando si tratta di attività lucrative. Per altro verso, ma coincidente, le stesse emergenze di finanza pubblica inducono a considerare, con urgente attenzione, la dismissione dei servizi pubblici anche quando, invece, generano pesanti perdite per il bilancio dei comuni controllanti. In questo senso persino coloro che hanno votato al referendum a favore del mantenimento dell'acqua nell'orbita pubblica - principio poi esteso dalla Corte Costituzionale anche agli altri servizi pubblici - potrebbero apprezzare una cessione ai privati, rigorosa e controllata, delle società di servizio pubblico, nella consapevolezza che arroccarsi nella difesa strenua del'indifendibile possa pregiudicare definitivamente l'accesso alla strada dell'efficienza e del rigore dei conti pubblici.
Non dimentichiamo infatti che una famiglia siciliana, tanto per fare un esempio, sopporta un tributo per il ritiro e lo smaltimento dei rifiuti circa quattro volte più pesante di una famiglia veneta che vive invece una situazione igienico-ambientale di gran lunga migliore e che, per ulteriore paradosso, ha un reddito superiore del 40%. E questo per tacere come le inefficienze della gestione pubblica, dalla sanità ai servizi locali, ci scarichino addosso anche pesantissime addizionali Irpef ed Irap.