All’indomani degli scontri fra studenti e polizia, davanti a Palazzo d’Orleans, le polemiche sembrano concentrarsi sull’uso o meno della violenza. C’è chi la considera pienamente legittima come risposta alle cariche dei poliziotti. Davanti all’ovvio rilievo che dei manifestanti che portavano fin dall’inizio caschi, bottiglie e spranghe, difficilmente possono sostenere di essere solo stati costretti a difendersi, gli interessati replicano che si aspettavano la repressione e si sono dovuti perciò premunire. C’è chi, invece, denunzia come una inaccettabile degenerazione la strategia dello scontro fisico e rivendica le intenzioni pacifiche di moltissimi degli studenti che partecipavano al corteo, accusando i violenti di avere rovinato il senso della manifestazione. In questa divergenza tra «falchi» e «colombe», la sola cosa che non viene messa in discussione è il valore della protesta e la necessità di continuarla per far sentire la voce dei giovani.
I bersagli sono il presidente del Consiglio Mario Monti e il neo-eletto governatore Crocetta, che sarebbe il continuatore della vecchia politica, responsabile – in Italia e specialmente in Sicilia – di una crisi le cui vittime sono in primo luogo i giovani. Da qui lo slogan con cui i manifestanti proclamavano di volersi «riprendere il futuro». Da qui anche l’ondata di assemblee e occupazioni di scuole che si profila – questa volta senza divisione tra «duri» e «moderati» - per sostenere le proprie ragioni.
Davanti a questo quadro, la prima cosa da osservare è che non si può dare certo torto a questi ragazzi sule ragioni che li motivano. Le responsabilità della classe politica sono gravissime. La crisi finanziaria ed economica, che ha messo in ginocchio un po’ tutte le economie dei paesi europei, nel nostro è stata gestita fin dall’inizio, dal precedente governo nazionale, con una irresponsabile superficialità. Ma la drastica «terapia d’urto» messa in atto dal nuovo governo comporta a sua volta costi gravissimi per le fasce più deboli. E in particolare per l’occupazione giovanile continuano a registrarsi indici in discesa, senza alcuna garanzia di una ripresa.
Quanto poi alla nostra Isola, non è nemmeno il caso di richiamarsi alle calamità internazionali: da noi gli ultimi governi regionali sono stati essi stessi, indipendentemente dalla crisi, una calamità, affogando le speranze dei siciliani in un mare di corruzione, di clientelismo, di malcostume politico e amministrativo, che hanno prodotto lo spreco sistematico delle risorse e l’impossibilità di un decollo della nostra economia.
Hanno dunque ragione i giovani di reagire come stanno facendo? Una perplessità nasce subito, a questo punto, sul destinatario designato. Nessuno può garantire che Rosario Crocetta sarà capace di migliorare la situazione di degrado in cui ci troviamo immersi fino al collo. Ma bisogna lealmente constatare che le sue prime dichiarazioni vanno sicuramente nel senso di una rottura con gli stili del passato, al punto da suscitare le reazioni degli stessi partiti che l’hanno sostenuto.
«Sono tutte chiacchiere!», diranno i critici. Non lo si può affatto escludere. Ma l’alternativa qual è? Gridare che ci si vuole riprendere il futuro? Come? L’esigenza è giustissima, ma il solo modo di realizzarla, alla luce della storia dell’umanità fino a questo momento, è la via della politica. Sì, la vituperata politica, che altro non è se non l’impegno comune dei membri di una comunità civile per raggiungere gli obiettivi che essi ritengono più giusti, il cosiddetto «bene comune». Che essa sia stata da noi quasi sempre piegata a scopi perversi non deve farci dimenticare che ce ne può essere una buona e che comunque anche chi pretende di farne a meno, di fatto poi si trova a doverla praticare.
La protesta, allora, per non ridursi ad un grido comprensibilissimo, ma scomposto e sterile, dovrebbe essere in grado di proporre serie alternative politiche. Quali? Chi dei ragazzi che urlavano slogan sotto il palazzo della Regione sa, non dico fare, ma anche soltanto leggere un bilancio? Tutti, a parole, vogliamo una Sicilia diversa, dove i giovani non siano costretti ad andarsene per cercare lavoro o anche semplicemente per studiare in condizioni migliori. Ma il problema comincia quando dal volere si passa al fare. E tra le due cose, come è noto, c’è di mezzo il mare. Questo mare è la politica. È qui che le manifestazioni, le occupazioni, i cortei, mostrano il loro gravissimo limite: ricordano molto la stanchezza e la rabbia che hanno spinto più di metà dei siciliani, alle scorse elezioni regionali, a non andare neppure alle urne. Anche loro hanno pensato, davanti alle proposte dei candidati, che «sono tutte chiacchiere». Che cosa hanno risolto? Che ora governano persone che loro non hanno scelto. Anche volere riprendersi il futuro senza sapere in realtà come fare è una specie di rinunzia. Sotto le apparenze, è una forma di disperazione, un gettare la spugna.
E allora, c’è un altro modo? Sì, ed è di non ridurre tutto alla protesta. Protestare ha un senso solo sulla base di una informazione e di una formazione politica che sono la condizione per non gridare alla luna, ma per proporre alternative seriamente percorribili. Crocetta non ci piace? Benissimo: in democrazia è la gente che deve scegliere e controllare chi la rappresenta e governa. Critichiamo le sue scelte (però forse è meglio aspettare che ne faccia!), mostrando perché sono sbagliate o ispirate a logiche perverse. Indichiamo le alternative. Lo cantava Giorgio Gaber: la democrazia è partecipazione.
Però per questo ci vuole ben altro che occupare le scuole. Perché tutti sappiamo bene che nelle occupazioni i gruppi di studio partono con entusiasmo, ma si spengono dopo poche riunioni. È più facile protestare che studiare i problemi, riflettere, anche solo leggere i giornali assiduamente. Sì, assiduamente, anche dopo che l’occupazione finisce, ogni giorno, per tutto l’anno. Sconfiggendo la logica disastrosa per cui il tutto si riduce a un preambolo alle vacanze natalizie e scompare, inghiottito dalla rincorsa alle interrogazioni di fine quadrimestre, dopo Natale.
La vera protesta è assumersi il ruolo che ci spetta, quello di cittadini. E la scuola – non durante le occupazioni, ma tutto l’anno! - deve preparare a questo. Altrimenti è – come purtroppo spesso si riduce ad essere – un anestetico, invece che un laboratorio di idee e di speranza. Non ci servono parentesi di protesta seguite da lunghissimi letarghi. Per questo è indispensabile trasformare la rabbia momentanea in memoria tenace, in impegno durevole, in intelligente sforzo di riflessione. La scuola è il luogo più adatto per questa trasformazione. Capire questo sarebbe già, da parte dei giovani, cominciare a costruire con le loro mani un futuro diverso. [email protected]
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