L’espressione è banale ma purtroppo descrive esattamente la situazione: la violenza istigata da un episodio remoto e oscuro e che è esplosa in dimensioni inaudite in Libia si estende di ora in ora, proprio a macchia d'olio, nel Medio Oriente, in tutto il mondo arabo islamico e anche al di là delle sue più ampie frontiere. Attacchi a istituzioni americane, diplomatiche e no, sono segnalati dall'Atlantico all'Asia Centrale, dal Sudan alle Repubbliche ex sovietiche. Riempie carte geografiche ed atlanti: Casablanca, Tunisi, Khartum, in Libano, la Siria, Gaza e gli altri territori arabi amministrati da Israele, lo Yemen, il Bangladesh. Bruciano Bagdad e Teheran, Kuwait City e Bassora, l'Uzbekistan, il Kirghizistan, il Turkmenistan. Oltre, naturalmente, Bengasi e Il Cairo. I diplomatici Usa hanno dovuto evacuare la loro sede, invasa, a Tunisi, dal Sudan si segnala anche un attacco all'ambasciata tedesca. E i terroristi colpiscono o minacciano anche su suolo americano, dal Texas al North Dakota. Gli incendi d'autunno stanno consumando le ceneri delle speranze eccessive suscitate dalla Primavera Araba dell'anno scorso. Non è una crisi ma un groviglio di crisi che si arrotolano l'una sull'altra e investono temi immediati e fondamentali. Obama manda marines e navi da guerra a Bengasi, il suo ministro degli Esteri Hillary Clinton è costretta a richiamare i principii fondamentali su cui si regge la nazione americana: «Non possiamo né vogliamo impedire a nessuno di esprimere le proprie opinioni, anche quando sono ripugnanti». Si riferisce evidentemente al film che, in apparenza, ha scatenato il tutto oppure ne è stato il pretesto. È un filmato misterioso, che preannuncia un film che nessuno ha mai visto, è violentemente antislamico ed è stato fatto circolare prevalentemente fra musulmani. Non se ne conoscono gli autori né i produttori e l'ipotesi della provocazione acquista credibilità di ora in ora. Google fa quel che può e ha bloccato la trasmissione delle immagini, che su internet comunque continuano a circolare. La censura è in questi casi un diritto, un dovere o una violazione della libertà? È uno dei problemi, delle contraddizioni che hanno aperto il ventunesimo secolo dopo una breve parentesi di tolleranza universale germogliata sulla fine della Guerra Fredda e dell'impero sovietico. Almeno dall'11 settembre 2001 l'Islam ne è protagonista, proiettando fra l'altro sulla società moderna principii, assiomi, metodi che sono scomparsi da noi con le ultime ombre del medioevo e ai bagliori dell'Illuminismo. In Europa e in America escono quasi ogni giorno scritti o immagini che nei «Secoli della Fede» sarebbero stati definiti sacrileghi (a cominciare dalle caricature di Gesù) ma che oggi offendono coscienze e sensibilità ma non producono azioni penali né linciaggi e roghi di massa. Basti pensare, riaprendo una parentesi al confronto quasi umoristica, al can can di tre ragazze davanti all'altare maggiore della più grande chiesa di Mosca il cui processo ha suscitato in Occidente reazioni ben intenzionate ma anche esagerati paragoni fra Putin e Stalin. Quello che contro i cristiani è lecito, nei confronti dell'Islam è, come minimo, pericoloso. Ma un giudizio su questo non spetta ai governi. La Casa Bianca ha ben altro fra le mani: deve cercare di raffreddare la crisi con tutti i mezzi di cui dispone, dalla presenza militare alla pressione diplomatica. Ha avuto qualche successo, ma in misura finora incomparabile con le dimensioni della crisi, una lettera di scuse dal Cairo dei Fratelli Musulmani. Anche, direi soprattutto, per la coincidenza elettorale. «Una tempesta su misura», l'ha definita un autorevole commentatore. Su misura per rimettere in dubbio la stessa rielezione di Obama proprio nel momento in cui la sua candidatura ha spiccato il volo distanziando per la prima volta di diversi punti Romney sia nei sondaggi sul voto popolare, sia nell'analisi dei rapporti di forza negli Stati chiave. La nave di Barack appena uscita da una brutta e tenace tempesta viene spinta di nuovo verso gli scogli. La tragedia libica può ridare fiato a coloro che dal primo giorno di questa presidenza l'hanno tenacemente accusata soprattutto di «debolezza»; e queste accuse mordono, come accadde a George W. Bush per le sue sbandate in Irak e un quarto di secolo prima a Jimmy Carter con l'invasione dell'ambasciata americana a Teheran. Il candidato repubblicano si è gettato nella breccia con tutte le sue forze rischiando molto a sua volta e portando a nuovi vertici il tasso di «cattiveria» record di questa campagna elettorale. E sullo sfondo rimane, in agguato, il contenzioso fra Obama e Netanyahu a proposito degli esperimenti nucleari in Iran e dell'intenzione israeliana di interromperli con un attacco militare preventivo cui Obama si oppone e che potrebbe costargli non tanto il «voto ebraico» (di cui si parla semplicisticamente) quanto quello delle decine di milioni di protestanti «evangelici» che per motivi teologici mettono la difesa di Israele in cima alle loro preoccupazioni ed emozioni. Anche quello è Medio Oriente. Anzi, soprattutto. fondi@gds.it