Il penultimo caso di un ambasciatore americano assassinato in una sede estera risale al 1979. Accadde in Afghanistan, dietro la frontiera infuriava la rivoluzione integralista iraniana e lo scontro fra Teheran e Washington. Adesso è toccato alla Libia e le caratteristiche del crimine sono singolarmente simili alla situazione di allora. Per cominciare da un dettaglio, che è ben più di un dettaglio, Chris Stevens non è stato vittima dell'ordigno di un terrorista nascosto da qualche parte: è stato linciato, assieme a tre suoi colleghi, da una folla assatanata che ha assalito, incendiato e devastato il Consolato Usa a Bengasi. I cadaveri sono stati ritrovati per strada.
Questo tipo di violenze accade soltanto in un Paese in cui le strade diventano il foro degli scontri e delle manovre. Non sappiamo ancora se l'aggressione è stato lo sfogo dell'ira per la «prima» di un film offensivo per la memoria di Maometto oppure una vendetta per l'uccisione di Abu Yaya al-Libi, «comandante in seconda» di Al Qaida in Libia. La seconda ipotesi appare più probabile se non altro per il fatto che gli assaltatori disponevano di lanciarazzi e non soltanto di pietre o di bottiglie molotov di cui di solito sono armate le folle. Entrambe le ipotesi sono realistiche in un Paese tuttora sconvolto dalla «rivoluzione liberatrice».
Ancor più rivelatori e angosciosi sono i dettagli della personalità del diplomatico assassinato: un «amico della Libia» (come ha ricordato Obama nel suo primo, breve, addolorato commento) che era arrivato proprio a Bengasi, anonimo, su un cargo con la missione di allacciare contatti con i rivoluzionari e che, ha detto Obama, «ha rischiato la vita per fermare un tiranno, poi ha dato la vita cercando di costruire una Libia migliore». La sua sorte è una pagina in più di un libro di memorie della Primavera Araba, il terremoto che l'anno scorso avrebbe dovuto portare libertà al Grande Medio Oriente. Il capitolo libico si concluse con un linciaggio nel deserto, quello di Gheddafi, ma si aprì e Bengasi, culla della protesta, della rivoluzione e oggi delle caotiche violenze. L'appoggio dell'Occidente ai rivoluzionari non fu un'iniziativa americana bensì soprattutto francese. Ma alla fine è sempre l'America a «firmare il conto» e, spesso, a pagarlo.
Non si tratta solo di una degenerazione libica. Da molti mesi si segnala una reviviscenza del terrorismo in tutta l'area investita dalla «Primavera», che forse culmina nella «resurrezione» di Al Qaida, dopo l'uccisione di Osama Bin Laden, dal Pakistan al Nord Africa, ma soprattutto in Siria, il teatro odierno dove si replica la rivoluzione su scala assai più vasta e con conseguenze molto maggiori in tutta l'area. Damasco e le altre città non sono più teatro soltanto delle repressioni del regime di Assad ma anche, e sempre di più, di azioni terroristiche dei suoi nemici, siano essi «quadri» creati da Bin Laden o concorrenti. Si moltiplicano le uccisioni e torture non solo di sostenitori del regime ma anche di «neutrali» in base all'assioma che «non si può più restare neutrali».
L'allarme corre dunque sul filo un po' ovunque. Ma le conseguenze più immediate e importanti potrebbero sentirsi, a breve scadenza, negli Stati Uniti, mettendo in pericolo la stessa rielezione di Barack Obama. Gli ultimi sondaggi lo davano in forte ripresa, in qualche caso nettamente in testa, rispondendo anche a un desiderio di stabilità e continuità nonostante la difficile situazione economica.
Ma una crisi internazionale potrebbe capovolgere il verdetto. L'uccisione di un ambasciatore, la devastazione di una sede diplomatica all'estero vengono sempre attribuite a errori e soprattutto alla debolezza dei governi.
L'uomo della Casa Bianca rischia di trovarsi sotto il tiro incrociato delle «colombe» e dei «falchi». Con un'ombra più grande e minacciosa che si leva anch'essa da quella parte del mondo: una crisi nei rapporti con Israele o almeno tra Obama e Netanyahu che è esplosa poche ore prima della strage di Bengasi ma che è potenzialmente ancora più grave. Proprio per i collegamenti con la campagna elettorale Usa: da tempo si è affacciata l'ipotesi che i piani di Netanyahu per un'azione militare contro l'Iran potrebbero essere rinviati se Romney apparisse in testa nei sondaggi e che il «falco» premier di Gerusalemme potrebbe invece essere indotto ad anticiparla se i «venti» soffiassero nelle vele di Obama. Allo scopo di metterlo sotto pressione e costringerlo a sostenere lo Stato ebraico nella prova o a soffrire elettoralmente in caso contrario. fondi@gds.it