Alla Regione una fase di governo è all’epilogo migliore. Ma nel modo peggiore. Al punto in cui stavano le cose, le dimissioni erano dovute (e sono tardive). Era quello di Raffaele Lombardo un governo mutevole e girevole. Voluto dagli elettori del centrodestra, ribaltava la maggioranza verso il centrosinistra. Spericolato nella manovra d’assemblea, trovava consensi sostituendo assessori. Povero di spinta riformista (pochissime leggi di spessore in Parlamento), era ricco di uno spirito «nominante» per collocare dirigenti e consulenti. Fino all’ultimo: con le penose cronache di ieri. Efficiente nelle scelte di potere, era inefficiente e incerto nelle grandi scelte di spesa. Arrivando a una contrapposizione con l’Europa che non ha precedenti.
Ma si è adesso a una fase in cui tutti i passi si dovranno compiere nel buio. Candidature deboli non lasciano intravedere, per il futuro, alcuna leadership forte. I partiti appaiono frantumati e impotenti. Non si delineano chiari accordi di coalizione. Tanto meno c’è chiarezza su programmi e riforme possibili. In questo quadro, la chiarezza è necessaria. Intanto nel descrivere lo stato delle cose . In Sicilia una fase si è chiusa. Per sempre. La politica, si scriveva in questo giornale, vede i suoi protagonisti grandi e piccoli muoversi nella logica dello «scambio» come pesci nell’acqua.
Ma i partiti, dediti alla ricerca del consenso attraverso favori e concessioni, non sono marziani solitari. Hanno invece il sostegno di una «Sicilia delle clientele» che al potere si rivolge (e da esso ottiene) per stipendi, contributi, favori, carriere facili, nomine, incarichi. Sono figli di questo sistema organici pubblici esuberanti, dirigenti ben pagati e non necessari, eserciti di lavoratori precari tanto costosi quanto, talora o spesso, inutili. Questa Sicilia ha tanti padri e responsabilità diffusi. Nessun partito, nessun sindacato può chiamarsi fuori. Una analisi delle colpe, individuali o collettive, è sempre utile. Adesso, però, il punto politico è un altro. Questa Sicilia delle clientele ha ormai il suo centro in una Regione che non può più vivere. Non ci sono le risorse. Occorrono riforme forti e serie. Correzioni radicali della gestione pubblica. Altrimenti si è al baratro. Le cronache stanno lì a dimostrarlo. Non si riesce a pagare in tempo gli stipendi. Gli uffici chiudono nel pomeriggio non potendo far fronte agli straordinari. Si spengono pure i condizionatori per risparmiare sulla bolletta. All'Eas tagliano la luce dopo i debiti con l'Enel. Scrivevamo l'altro giorno del direttore dell'Ast che diceva: «Non ci sono soldi in cassa e non sappiamo dove trovarli». Mentre Gaetano Armao, assessore al Bilancio, non fa mistero: rischiamo seriamente il crac se solo i grandi creditori, giustamente spaventati, chiedono il rientro dai debiti. Una scelta diventa ormai perentoria. Il modello di sviluppo centrato sulla spesa pubblica non funziona più. Del resto i dati parlano chiaro (leggete Lelio Cusimano a pagina 6). Bisogna guardare altrove. Nessuno sollevi la bandiera di una autonomia senza gloria. È un brutto velo per nascondere malversazioni e imbrogli. La Sicilia, questa Sicilia, ha bisogno di attenzioni e solidarietà. In parole più semplici, necessita di risorse che non ha e di soldi che deve ottenere in prestito. Nessuno è disposto a concederli senza avere certezze sulla restituzione nei tempi e con gli interessi dovuti. Non servono i legittimismi. Ci vogliono invece progetti seri e credibili. La Regione deve programmare la sua svolta. Spendere meno e meglio. Destinare le risorse europee per rendere il territorio attraente alle imprese private. Deve rimodellare una burocrazia pletorica e inefficiente. Ancorando al merito e alla competenza nomine, incarichi e retribuzioni. Determinando le carriere in base ai risultati. Certo sono necessarie strategie dure e difficili. Ma senza alternative. Anche perché le scelte non possono che colpire tutti. I partiti devono rinunciare a quel potere totale in ragione del quale decidono tutto: dalla politica economica (ammesso che ne abbiano proposto qualcuna) alle assunzioni e nomine in ogni spazio (attività che invece interessa tutti). I sindacati devono ridimensionare il loro peso, godendo in Sicilia di un forte ruolo di governo, del tutto sproporzionato alla loro rappresentanza. Non poche imprese devono accettare il terreno della concorrenza senza tutele e protezioni pubbliche. Con queste riforme devono misurarsi tutti. E tutti dobbiamo essere consapevoli di una verità. In tempi duri e bui come i nostri, ciascuno deve saper discernere e valutare. Se non ci sono risorse, e non ci sono, i sacrifici sono inevitabili. Quanti sostengono il contrario sono solo dei ciarlatani che vendono fumo. Non è vero che un programma centrato su questi è privo di consensi. C'è bisogno, invece, di candidati forti e autorevoli che sappiano prospettare in cambio dei sacrifici scelte chiare di riforma per la crescita. Noi crediamo, e lo abbiamo sempre scritto, che sono maturi i tempi per ridurre il peso dell'amministrazione pubblica e favorire lo sviluppo dell'impresa privata. Crediamo poi che i metodi di gestione privata, ossia più merito e trasparenza, meno appartenenza e clientele, siano il modo più efficace per rafforzare il rapporto tra i cittadini e le istituzioni pubbliche. E per ridurre le infiltrazioni della mafia, ancora forte e vitale come, purtroppo, documentano inchieste che finiscono per coinvolgere gli alti vertici della Regione, compresi gli ultimi due presidenti. Scritte in Sicilia, queste parole potrebbero suonare come prediche inutili. Forse lo sono. Ma si guardi all'Europa e al mondo occidentale. La ricchezza aumenta dove l'amministrazione pubblica arretra. C'è più sviluppo quando c'è meno potere dello Stato nell'economia. Perché la Sicilia deve restar fuori dall'Europa e da quel mondo? Aspettiamo dai partiti e dai candidati presidenti una risposta. Sperando di avere le risposte che ci piacciono.