Anche il più distratto degli italiani dovrebbe ormai avere chiaro che la soluzione della crisi economica che squassa il vecchio Continente resta affidata a due semplici quanto complesse ricette: rigore nei conti pubblici e politiche di sviluppo per il lavoro. Gli italiani stanno già pagando un duro prezzo al rigore anche se non vedono ancora segnali di sviluppo. I consumi delle famiglie italiane sono diminuiti del 4% in tre anni e la disoccupazione sfiora il 10%. E la Sicilia? Qualche giorno fa la sede di Palermo della Banca d'Italia ha presentato il consueto report sull'Isola. Questo utile strumento di conoscenza può farci da guida per meglio comprendere come i temi del «rigore» e dello «sviluppo» vengano trattati in salsa siciliana.
Partiamo da quest'ultimo, consapevoli che il principale strumento di intervento della Regione Siciliana per favorire lo sviluppo risieda nella spesa, nella buona spesa, dei fondi europei. Come ricordano i tecnici della Banca d'Italia, la Sicilia dispone di una dotazione complessiva di risorse comunitarie per 10,8 miliardi di euro. Per i nostalgici della lira si tratta di quasi 21 mila miliardi.
Alla fine del 2011 (cinque anni dopo l'avvio del programma ed un anno prima della sua conclusione) la spesa certificata non superava però il miliardo.
I primi 15 milioni di euro sono stati già tolti alla Sicilia per mancata spesa, con il cosiddetto disimpegno automatico. Si dirà che 15 milioni sono poca cosa rispetto a quasi 11 miliardi disponibili. Ma le prospettive future non sembrano rosee. Come ha dichiarato, riguardo ai fondi europei, il ministro Fabrizio Barca (Corriere della Sera del 18 giugno) «in Sicilia siamo all'assoluta staticità; sono insoddisfatto».
Il tempo a disposizione per utilizzare i fondi europei è quasi alla fine, eppure bisognerebbe promuovere ogni sforzo per impegnarne (bene) la parte più consistente; non sappiamo se avremo un'altra opportunità come questa. Dall'Europa ci arriva intanto un monito indiretto. Nell'incontro di Roma dei quattro Paesi leader (Germania, Francia, Italia e Spagna) è venuta fuori una precisa ricetta: trovare 130 miliardi di euro per rimettere in moto l'intero Continente. Non è agevole spiegare perché l'Europa, con 500 milioni di abitanti, può ricominciare a crescere con 130 miliardi di euro e la Sicilia, con 5 milioni di abitanti, non possa farlo con i suoi 10 miliardi.
E passiamo al rigore dei conti pubblici. Come in un qualunque bilancio familiare, la ricetta è semplice: ridurre le spese ed aumentare le entrate (tasse). Anche in questo caso torna utile il report della Banca d'Italia, con il suo focus sulle entrate tributarie. È noto da tempo, almeno agli addetti ai lavori, che in Sicilia, per dirla con un eufemismo, abbiamo qualche difficoltà a far pagare le tasse. La Regione ad esempio incassa 2.217 euro per abitante, mentre nella media delle altre regioni a statuto speciale se ne incassano 3.375 a testa. Come dire il 35% in più.
Analogamente i Comuni della Sicilia incassano 275 euro per residente, rispetto ai 310 euro dei comuni nelle altre regioni speciali. Fanno eccezione soltanto le Province siciliane con 57 euro pro capire rispetto a 50 euro delle altre. Questo malvezzo tutto siciliano di non pagare i tributi locali, fa venire meno una montagna di soldi; si può stimare che il minore gettito regionale e comunale sia nell'ordine di almeno 4 miliardi di euro all'anno, che vengono sottratti ai servizi pubblici ed alla spesa sociale. La strada maestra per correggere questa stortura sarebbe quella di allargare la base imponibile, insomma fare pagare tutti. In tempi di crisi c'è un'altra strada obbligata: aumentare le tasse.
E la Sicilia che cosa ha fatto? Si è guardata bene dall'allargare la base imponibile, essendo più agevole e veloce fare pagare di più... quelli che già pagano. La Regione Siciliana concentra il 97% dei propri tributi nell'Irap e nell'addizionale Irpef. Ed ecco che l'aliquota Irap è fissata al 4,82%; il massimo consentito in Italia dalla legge. L'addizionale Irpef è fissata all'1,73% rispetto alla misura base dell'1,23%. I Comuni, dal canto loro, hanno due strumenti a disposizione: l'ICI (oggi IMU) e l'addizionale Irpef. Nel 2011 i Comuni delle altre regioni a statuto speciale applicavano in media una aliquota ICI del 6,14 per mille, quelli siciliani invece del 6,49 per mille.
Nel caso poi dell'addizionale Irpef, l'aliquota in Sicilia è dello 0,45%, nelle altre regioni dello 0,34%. Le Province, infine, possono variare l'imposta di trascrizione. Cinque province siciliane su nove, hanno così deliberato l'aumento massimo del 30% dell'imposta base. Insomma torchiando di più chi già paga, pensiamo di salvare i conti pubblici. Scriveva qualche giorno fa Ferruccio De Bortoli: è grave che nel nostro Paese abbia perso di significato - non del tutto per fortuna - il concetto di una classe dirigente responsabile, preoccupata dell'interesse generale, in grado di esprimere un indirizzo, un'idea di società... insomma fiera di dirigere e non sfacciata soltanto nell'esigere.