Luigi Lusi sapeva di essere arrestato. Aveva stampata in testa una data: 29 aprile 1993, il giorno in cui la Camera negò l'autorizzazione a procedere nei confronti del governo Craxi. I ministri del Pds e dei Verdi si dimisero subito dal governo Ciampi appena formato (tra questi Francesco Rutelli) e il voto della Camera segnò la morte di quel restava della classe politica, già quasi abbattuta da Tangentopoli. Da politico navigato, Lusi sapeva che nessun partito avrebbe potuto reggere alla furia popolare se fosse rimasto in libertà l'uomo delle troppe ostriche e delle vacanze esotiche pagate dai cittadini con i soldi del finanziamento pubblico. Ho parlato con lui per tre ore il pomeriggio precedente l'arresto. Non l'avevo mai incontrato prima. Era sereno, s'informava senza affanno delle venti firme messe, ritirate, rimesse sul foglio (mai presentato, alla fine) che avrebbero dovuto chiedere il voto segreto e quindi la possibile salvezza. Lusi mi ha detto che l'indomani sarebbe uscito di casa con il trolley per il carcere e durante la notte mi ha trasmesso per sms l'elenco dei sei libri che aveva scelto per accompagnarlo nella detenzione. "Le confessioni" di Sant'Agostino ("Finalmente potrò leggerle"). Pensava che la scelta di Sant'Agostino mi meravigliasse e gli ho risposto di no: c'è sempre un testo edificante per i momenti difficili. Le sofferenze dei quattro figli (la piccina ha due anni, gli altri non sono scampati alla violenza mediatica) e la sorte della moglie sono stati i suoi pensieri dopo il verdetto. «La priorità è la fine degli arresti domiciliari per mia moglie», mi ha scritto dopo il voto. Ha scelto Rebibbia per la detenzione, un carcere meno traumatico di Regina Coeli. Verrà interrogato domani e il vero processo comincerà soltanto allora.
Lusi è stato arrestato per l'enormità dello scandalo più che per esigenze cautelari estremamente deboli, come riconosce qualunque giurista in buona fede. «La vera detenzione è quella preventiva», mi ha detto l'altro giorno. È accusato di associazione per delinquere (in concorso con la moglie e i due commercialisti della Margherita) e di appropriazione indebita. Riconosce la seconda imputazione, non la prima, decisiva per l'arresto.
Nessuno s'illuda che il processo Lusi si limiterà al «mariuolo», come l'ha definito Rutelli evocando la frase usata da Craxi per Mario Chiesa, il sassolino che provocò la valanga di Mani Pulite. I tesorieri di partito vanno maneggiati con cura. O si è come Primo Greganti, il mitico "cassiere" del Pci-Pds che avrebbe resistito senza aprir bocca anche nelle prigioni segrete di Stalin durante il Terrore. (Sorpreso con un miliardo in contanti nella borsa, disse che era il ricavato di una festa dell'Unità e i finanzieri lo lasciarono andare). O sono cavoli amari.
Andando al sodo, Lusi ha fatto due tipi di operazioni. La prima, di gran lunga più importante, è consistita nel far fatturare alla Margherita da una propria società consulenze inesistenti, paganDo le imposte sul ricavato e comperando col resto due belle residenze nel centro di Roma e a Genzano, sui Castelli romani, provvedendo poi ad affittarle a se stesso al canone mensile di 2500 euro ciascuna. La seconda è di aver avuto "compensi" in contanti (con autorizzazioni indimostrabili) che gli hanno consentito un tenore di vita molto alto, con gli scandali dei pranzi e dei viaggi di cui sappiamo. Sul secondo punto la difesa di Lusi è molto debole. Ma il vero processo sarà celebrato soprattutto sul primo punto e fatalmente si estenderà ai finanziamenti erogati ad alcuni dirigenti della Margherita per la loro attività politica, cioè per le ragioni che hanno indotto il Parlamento a votare a suo tempo la legge sul finanziamento pubblico: giusta nel principio, a giudizio di chi scrive, scandalosa negli importi e nelle modalità di erogazione. Soldi a partiti estinti, legislature finanziate per intero anche se interrotte.
Nessuno può dubitare dell'onestà personale di questi dirigenti e meno che mai di quella di Francesco Rutelli. Ma a un osservatore neutrale pare del tutto incredibile che il collegio dei revisori dei conti (organismo tecnico, affiancato al comitato di tesoreria composto da un politico per ogni corrente della Margherita) non abbia avuto niente da ridire nella lettura dei bilanci e degli allegati. Questo, indipendentemente da eventuali risvolti penali, porta a riflessioni amare sulla gestione dei finanziamenti pubblici ai partiti. Se un tesoriere è il padrone assoluto del tesoro e lo gestisce per almeno cinque anni a suo piacimento deve avere la forza politica per farlo. Lusi non è Craxi. Chi gli ha permesso di essere potente quanto lo era il Bettino dei tempi d'oro? E perché?