Non è stata una passeggiata quella che la sede di Palermo della Banca d'Italia ha proposto a un ristretto e qualificato uditorio, nell'occasione del consueto report sull'economia siciliana. Neanche la formula rinnovata di allargare il tavolo dei relatori con l'inclusione di alcune «voci di parte» ha potuto allentare la tensione preoccupata degli astanti.
Una raffica di parametri statistici, tutti drammaticamente volti al peggio, ha fatto materializzare un ectoplasma latente nell'austero salone: la crisi globale e devastante che con le sue poderose mandibole frantuma, senza distinguo, posti di lavoro, imprese, nuclei familiari, redditi, consumi e con essi le attese e persino le speranze di tanti siciliani, giovani e meno giovani. C'è da restare stupefatti di fronte all'incapacità, tutta nazionale, di affrontare con serietà il dibattito sulla sopravvivenza dell'euro e di fronte alla inadeguatezza, tutta regionale, a contrastare la spirale senza fine nella quale ci stiamo avvitando.
Scriveva qualche giorno fa Antonio Puri Purini che noi italiani siamo molto più deboli di altri, abbiamo maggiori torti e molto più da perdere, eppure sembriamo non capire che, senza moneta unica e con Beppe Grillo, scivoleremmo nella catastrofe.
Difficile immaginare una soluzione più grossolana. E mentre qualche autorevole storico ci ricorda che nel 1928 il partito del Terzo Reich pesava il 2% e che quattro anni dopo aveva preso il controllo della Germania, assistiamo in Italia allo spettacolo imbarazzante di una opposizione strenuamente impegnata a riaffermare l'immagine rissosa dell'Italia, di una maggioranza già in campagna elettorale e, per non privarci di nulla, del consueto, ormai quotidiano, attacco della Camusso alla Fornero.
E tutto questo mentre l'outlook (la previsione sul futuro) dell'euro oscilla tra il lieto fine (l'affermazione in Grecia del fronte pro euro) e la catastrofe totale (il ritorno alle monete nazionali). Tanto per avere un'idea di quanto vale per l'Italia lo scudo dell'euro, può aiutare un facile esercizio di aritmetica: il debito pubblico italiano è pari a 1948 miliardi; per esprimerlo in lire occorre moltiplicare per 1936,27. Ne viene fuori un numero a 19 cifre.
Il Giornale di Sicilia ha proposto ai propri Lettori numerosi servizi e commenti sul report della Banca d'Italia. Qui vorremmo brevemente richiamare, dallo studio della nostra banca centrale, alcuni temi che, pur coinvolgendo trasversalmente l'intera struttura socio-economica siciliana, solo di rado trovano autonomia di trattazione: sono l'energia e l'istruzione. La Sicilia rappresenta, notoriamente, la piattaforma energetica dell'Italia; dall'Isola arriva più del 40% delle benzine e del metano necessari al Paese. Siamo anche esportatori netti di energia elettrica, che produciamo in misura eccedente i consumi locali.
Malgrado questa situazione non arrechi alcun beneficio fiscale (le accise sono di competenza statale) né tantomeno occupazionale (tre o quattro mila posti di lavoro), restiamo saldamente attaccati al petrolio ed al suo carico inquinante, apparentemente ignari delle tragiche conseguenze che possono scaturire dalla nostra dipendenza da Paesi fornitori, politicamente instabili. E quindi il rigassificatore di Priolo può restare tranquillamente nel limbo... delle carte.
La nostra "spocchia" verso le energie rinnovabili, con il sostegno implicito di un ambientalismo un po' snob, ci permette anche di conquistare la maglia nera tra le regioni italiane. In base agli impegni assunti (dal precedente governo e riconfermati dall'attuale) in sede europea, la Sicilia dovrebbe coprire con le energie rinnovabili (ossia sole, vento e biomasse) il 27,3% del proprio fabbisogno energetico entro i prossimi 7 anni. Siamo al 10,5% e quindi 16,8 punti al di sotto dell'obiettivo assegnato.
Ed ancora aspettiamo il piano energetico regionale, licenziato in prima stesura nel 2007. Istruzione: se possiamo dare per scontato un più basso livello di scolarizzazione rispetto al resto d'Italia, non è francamente ammissibile che il livello di apprendimento degli studenti siciliani sia tanto basso.
Insomma i nostri ragazzi hanno un minore contenuto di conoscenze e competenze. Certo pesano le condizioni di base, il contesto socio economico in cui vivono e si formano.
Ma come giustificare che i giovani siciliani sono assai meno preparati di quelli calabresi, pugliesi o sardi? Anche simulando che i ragazzi siciliani fruissero delle stesse condizioni socio-economiche e culturali della media nazionale, l'apprendimento risulterebbe, comunque, ancora inferiore a quello medio del mezzogiorno, per tacere del gap con la media italiana.
Né provoca alcun turbamento che i diplomati lombardi con 100 e lode siano appena la metà di quelli siciliani, sebbene la Lombardia abbia il doppio degli abitanti della Sicilia. Dopo il boato delle proteste per la riduzione del numero degli insegnanti in Sicilia (legge Gelmini), ora il silenzio assordante sul minore grado di apprendimento dei nostri studenti, evidenziato dai confronti nazionali ed internazionali. Eppure lo sviluppo ed il lavoro tanto agognati passano obbligatoriamente da questi angusti passaggi; pensare di eluderli o di aggirarli sarebbe una pia illusione.