Giovanni Rizzuto era come un’ombra che frequentava l’orizzonte degli eventi occupandone, non visto, le prime linee. E in prima linea se n’è andato. Sino a sabato scorso era al giornale a lavorare.
Sotto certi aspetti non parlava molto. Praticava con gusto un po’ retrò la sentenza secondo la quale «la meglio parola è quella che non si dice». Credo che gli sarebbe piaciuto che la sua immagine fosse associata a quella di un vecchio contadino o di un vecchio pescatore. Gente di poche parole anche loro.
Giovanni aveva 61 anni e aveva cominciato a fare il giornalista a 18 nella redazione del giornale L’Ora sotto la direzione di Vittorio Nisticò. I suoi primi incarichi erano stati quelli di cronista di «bianca» per poi passare alla politica regionale per seguire la quale aveva frequentato per molti anni l’Ars, vera scuola di cronaca per decine di cronisti siciliani.
Al Giornale di Sicilia arrivò nel 1978, chiamato dall’allora direttore Lino Rizzi. E fu l’inizio di una lunghissima carriera: cronista di nera, poi redattore addetto alla prima pagina, poi caposervizio con la direzione di Antonio Ardizzone e Giovanni Pepi, responsabile di pagine provinciali, capo delle Province, capo del settore interni ed esteri poi, da lunghi anni, caporedattore centrale.
Servizio permanente effettivo: difficile trovare la sua scrivania vuota. Riusciva a tenere testa all’organizzazione complessa tipica di una redazione con una presenza attenta e assidua. Limitava le assenze al minimo inevitabile e, si può dire, quasi si «costringeva» ad andare in ferie.
Da redattore alla prima pagina aveva imparato a valutare le notizie dell’ultima ora con grande velocità e competenza. Non si sottraeva mai al confronto e, anche da redattore capo, parlava semnpre a lungo col cronista che si era occupato del fatto su cui puntava il giornale perché il titolo in prima pagina fosse assolutamente aderente ai contenuti dell’articolo all’interno.
In questi ultimi 35 anni il Giornale di Sicilia ha attraversato numerose fasi di innovazione tecnologica che hanno anche cambiato profondamente l’organizzazione del lavoro. Giovanni Rizzuto era sempre il primo a cercare di impadronirsi dei nuovi protocolli cercando di capirli nella loro struttura piuttosto che semplicemente applicarli. Per questo aveva costruito un rapporto molto stretto con il settore tecnico. Tutto questo lo aiutava a una migliore ottimizzazione di un lavoro che, tipicamente, viene fatto con l’occhio costantemente rivolto all’orologio.
Quando diventò caposervizio e responsabile prima delle province e poi del settore regionale, imparò come si costruisce un rapporto con le redazioni periferiche e gli uffici di corrispondenza, zone che andava a visitare ogni volta che ne aveva la possibilità. Un’esperienza preziosa quando si trattò di assumere l’incarico di redattore capo centrale. Si tratta di un ruolo che impegna l’intera giornata di chi lo riveste e che comporta una conoscenza profonda dell’intero meccanismo del giornale che prevede una serie di riunioni, di decisioni veloci sugli stati di avanzamento che riguardano fatti in evoluzione. Con la conseguenza di dovere spesso montare e smontare un giornale più volte nel giro di poche ore.
Giovanni Rizzuto era nato a Palermo ma il padre era di Cattolica Eraclea. Ed ecco rintracciato il suo legame con l’ambiente contadino. Era fiero di sapere guidare un trattore e di spegnere gli incendi estivi.... coi fiammiferi spiegando come funzionava la sorprendete tecnica dello «stagliafuoco» che doma le fiamme col fuoco. E non è un caso se, da giornalista, annoverava tra le sue competenze anche particolari conoscenze nel settore cereagricolo e vitivinicolo che così tanto appartengono al tessuto economico siciliano.
Ma Giovanni era anche un grande appassionato di mare, abituale frequentatore delle Eolie. Tuttavia aveva cominciato con Marettimo nelle Egadi dove arrivava e spariva subito perché si imbarcava coi pescatori e mancava due o tre giorni. Che faceva? Imparava: palamiti, tremmagghi, esche. Poi tornava e gli toccava la parte. In natura: ceste di pesce.
Una curiosità che aveva fatto diventare mestiere e che aveva sempre saputo ancorare alla realtà dei fatti concreti Non c’era meta che lo fermasse: in occasione del terremoto del gennaio del 1968, partì per Santa Margherita Belice, giovane volontario. Dopo una settimana era già direttore di un ospedale da campo.
Tutte esperienze che avrebbe messo all’incasso facendo il giornalista. Refrattario alle passioni dell’ideologia ma non per questo cinico convinto di essere «titolare» della verità. Sospettoso per tutto ciò che «va per la maggiore», frequentava le nicchie senza spocchia ma con l’orgoglio di chi non si fa omologare. Così è stato da cronista, così da dirigente ma senza mai perdere il gusto per lo sberleffo.
Malocarattere, sicuro. Non era facile discutere con lui. Ma non perdeva mai il rispetto per l’interlocutore, chiunque fosse: redattore, corrispondente, fotografo, tipografo. Per questo si può dire che ieri se ne sia andato uno degli ultimi maestri.
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