Giovanni è morto. Davanti alla tragedia restiamo increduli. Contro ogni logica. Come sempre in questi casi. Il cancro lo colpiva qualche mese fa. Abbiamo lavorato insieme fino agli ultimi giorni. Riunioni continue. Per mettere a punto programmi e progetti che fossero in grado di dare risposte alla crisi acuta che colpisce la carta stampata. Non parlava mai della sua condizione. Solo una volta, disse a uno di noi per motivare una assenza «sai, per ora, non ho testa». Poi più niente. Neppure un cenno. Discutevamo e scherzavamo come se il problema non ci fosse. Dimenticavamo così ciò che lui voleva dimenticassimo. La terribile malattia ha affrettato il corso delle cose. E lui se ne è andato. Tenendo davanti alla morte lo stile che ha avuto in vita.
Personalità complessa, la sua. Come di ogni uomo dallo spirito forte. Era un grande redattore capo centrale. Puntuale. Attento. Sempre pronto a cogliere i fatti che fanno titolo. Ma del suo mestiere non parlava. Non saliva in cattedra. Non era mai indulgente davanti agli errori dei colleghi. Ma nel contestarli non andava oltre le righe. Nè alzava la voce. Non esibiva cultura. Era sempre parco di citazioni. Teneva per sé il piacere di certe letture classiche. A cominciare dall’amata Iliade.
Era schivo. Quasi introverso. Ma nei rapporti aveva sempre un tratto cordiale. Perfino bonario. Così era a tutti facile stabilire buoni rapporti con lui. Ha lasciato presto il ruolo di cronista (nel quale sapeva eccellere). Ha preferito l’organizzazione e la direttiva. Ma se il mestiere lo chiamava non si tirava indietro. Non poche volte, quando gli capitava di scontrarsi con i fatti, metteva sul suo tavolo la macchina da scrivere. E consegnava alle nostre pagine delle cronache bellissime. Appariva sempre lento. Distaccato. Come se al mestiere e alla fatica desse del Lei. Ma era infaticabile come pochi. Veniva al giornale tra i primi e tra gli ultimi andava via. Nei dibattiti in redazione stava sempre un passo indietro. Ma difficilmente la sua posizione poteva restare inascoltata. Sapeva convincere con poche parole. E parlava sempre col tono di chi metteva nel conto il parere diverso degli altri.
Non gli piaceva il palcoscenico. Non partecipava a dibattiti e talk show. Ma fu, controvoglia, tra i pionieri della tv locale. Glielo chiedemmo. Non si tirò indietro. E contribuì al successo di Telegiornale di Sicilia. Andò anche in video. Non rinunciando, con l'ostinata coerenza che lo distingueva, al conosciutissimo tic di arricciarsi i riccioli col dito.
Credeva nella cronaca. Guardava con diffidenza ai commenti e alle analisi colte. Pensava che niente più dei fatti ben raccontati poteva dare il senso delle cose e dei fenomeni. Per questo esigeva chiarezza e puntualità nelle parole dei titoli. Che considerava, giustamente, i «cruciali dettagli» del giornalismo. Di cui a lui piaceva quella semplice funzione che la rende una professione sublime al servizio della gente. Raccontare quel che succede perché i lettori lo sappiano.
Giovanni Rizzuto ci lascia tutto questo. Viene meno al giornale la forza di un grande mestiere. Restano i suoi consigli e le sue analisi. Che hanno contribuito a mettere a punto programmi che portano anche la sua firma e dovremo attuare senza di lui. Ma perdiamo un amico. Un grande insostituibile amico. Ha collaborato con noi fino all’ultimo. Per dare a questo giornale il migliore futuro. Quando già sapeva che la sorte a lui ne aveva negato uno. Addio Giovanni.