Si sapeva. Più che un timore, era una certezza. Che ieri è puntualmente andata in scena, nella prima di una - temiamo lunga - serie di giornate calde per Palermo. Che si prepara a vivere settimane in pieno ostaggio degli operai Gesip. La loro vertenza, ampiamente annunciata nella sua evidente gravità, si sta avviando allo zenit della tensione senza alcuna reale soluzione alle viste. Un’armata (più o meno disordinata) di quasi duemila persone che sperano che, da qualche parte (ma dove?), qualcuno (ma chi?), trovi una nuova «paccata» - termine mai come oggi di moda - di milioni per tenerne in vita il contenitore-azienda. Cioè quella sciagurata esperienza figlia di troppi padri politici che sta contribuendo - insieme ad altre acclarate storture vergate con l’inchiostro del consenso clientelare - a mandare a fondo l’intera macchina Comune.
Il tutto mentre infuoca una campagna elettorale che mai come ora sta mostrando la parte più deleteria e autolesionista di una classe politica impegnata più in muscolari giochi di potere che a pianificare un futuro difficilissimo per la città. Nei programmi finora illustrati da alcuni dei candidati in campo si parla di ipotesi di investimenti e di nuove iniziative, magari anche lodevoli, ma che sembrano non fare affatto i conti con una situazione economica che non consente chissà quali ghirigori elettorali. Non un solo cenno chiaro a come in realtà si può tirar fuori Palermo dal gorgo in cui sta precipitando, né a come e dove reperire le risorse necessarie per imboccare la via della ripresa. E intanto si glissa sulla bomba Gesip e nessuno prende apertamente le distanze da certi intollerabili metodi di protesta che noi condanniamo senza appello. Ma, si sa, in campagna elettorale i voti si contano e non si pesano. E guai a farsi nemici fra gli elettori. Chiunque essi siano.
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