Il tormentone del negoziato sul mercato del lavoro è arrivato a un primo approdo. Può essere che, nei prossimi giorni, si adotterà la formula di un verbale che raccolga il senso complessivo di una vicenda in cui la vera posta in gioco non è il merito dei problemi o la ragionevolezza dei comportamenti sociali.
Piuttosto l’accanita difesa di un passato che non vuole passare e che - al pari di uno zombie - continua ad aggirarsi nei campi trincerati di soggetti sociali che, per il ruolo che svolgono, dovrebbero guardare avanti. Eppure, non riescono a farlo, perché, al pari dell’Orfeo della leggenda, temono che la loro Euridice (ovvero il senso della propria identità) si trasformi in una statua di sale. Ci auguriamo che almeno si trovi un modus vivendi: ovvero una forma articolata di gestione del consenso e del dissenso che blocchi ogni estremismo. Purtroppo il tono dello scontro sta salendo rapidamente. Gli slogan e le parole d’ordine si stanno forgiando nell’odio del radicalismo più cieco. La maglietta «Fornero al cimitero» indossata durante una manifestazione pubblica inquieta. Addirittura sgomenta che venga fotografata accanto ad un ex ministro come Oliviero Diliberto che è anche segretario di un partito che tiene il nome comunista in ditta. Un brodo di coltura che si nutre nell’area della sinistra extra-parlamentare. Il risveglio non può che suscitare paura e oscure memorie. Nel decennale dell’omicidio di Marco Biagi. Nel ricordo di Massimo D’Antona. Nel lontano sacrificio di Ezio Tarantelli. Tutti martiri per aver tentato di cambiare le regole sul mercato del lavoro. Come non capire le preoccupazioni di Elsa Fornero. Gli slogan sono avvelenati. La riforma rende i licenziamenti facili, si sente ripetere con insistenza in queste ore. Come se il mondo delle imprese fosse frequentato da mascalzoni e gaglioffi impegnati solo a sfruttare i loro dipendenti e poi buttarli via come stracci. Senza rendersi conto di una verità elementare. Che i collaboratori sono il vero capitale di un imprenditore. Che la decisione di privarsene è una sconfitta. Ma anche la sola possibilità di garantire la sopravvivenza dell’azienda sperando che il miglioramento del mercato consenta di ricostituire gli organici. Un’industria che muore per eccesso di costi non serve a nessuno. E la ripresa economica che prima o poi arriverà può essere agganciata con una struttura industriale vivace e dinamica. Non certo barcollando in un cimitero. Non a caso altrove in Europa, sono stati proprio i governi di sinistra (a cominciare dal socialdemocratico Schroeder in Germania) in prima linea nel riformare le regole da cui è scaturito il risveglio del sistema industriale. Dieci anni fa la Germania era il grande malato d’Europa. Oggi è tornata a essere l’orgogliosa locomotiva di sempre. In mezzo le riforme volute dai governi di sinistra. Invece in Italia la Cgil si ostina a difendere quello che Marco Biagi definiva il peggior mercato del lavoro in Europa. Il suo “Libro Bianco” venne dichiarato “limaccioso” da Sergio Cofferati. Che arroganza. Che superbia. Come se la Cgil fosse l’ultima depositaria della verità. E gli altri sindacati che hanno accettato? Ciechi strumenti, secondo il sindacato rosso. Abili negoziatori che hanno ottenuto un reale vantaggio per i lavoratori nell’opinione di molti. E valga il vero.
Nella riforma il governo ha assunto i capisaldi della mistica della precarietà. Sui rapporti di lavoro flessibili, calerà una vera e propria "cortina di ferro". Su tali tipologie (che regolano la cosiddetta flessibilità in entrata) graveranno una pregiudiziale di illegittimità e un’inversione dell’onere della prova a carico dell’impresa: due fatti che ne scoraggeranno l’uso. Ma, al di là della doverosa lotta agli abusi, è una mera illusione pensare di poter costringere le aziende ad assumere a tempo indeterminato solo attraverso un percorso fatto di vincoli, divieti, autorizzazioni e ispezioni perché esse preferiranno non assumere. Ci vuole la flessibilità in uscita garantita dal nuovo articolo 18. In ogni caso, sarà opportuno non trarre conclusioni affrettate e attendere le poche ore che ci separano dalla chiusura della fase di concertazione tra le parti sociali. Forse, il sostanziale giro a vuoto del negoziato segnala anche la chiusura di una fase e l’apertura di una nuova. A suo tempo, le parti sociali caldeggiarono a gran voce l’instaurazione di un governo tecnico nella convinzione che a loro sarebbe spettato quel ruolo di protettori che esercitarono ai tempi del governo Dini. Si sono imbattuti, invece, in un governo che appartiene, politicamente parlando, a un’era geologica più avanti della loro.