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Sicilia allo stremo: serve lo sviluppo

Il lungo corteo che ha sfilato ieri lungo vie di Palermo aveva un bersaglio e un obiettivo ben precisi: smantellare il sistema dell’assistenzialismo e portare la rotta della Sicilia nella direzione dello sviluppo e del lavoro veri. È stato un modo limpido e diretto per affermare i diritti sacrosanti di quei siciliani, giovani e meno giovani, disoccupati o demotivati al lavoro, che tutti insieme danno vita ad un esercito impressionante di almeno 700.000 persone. Che cosa possono fare quanti hanno responsabilità di governo nella nostra regione? Direttamente nulla. Indirettamente tantissimo. Si possono in sostanza creare le condizioni ambientali favorevoli all'investimento, affinché le imprese, locali e non, trovino stimoli a rischiare i propri capitali e purchè Regione e Comuni rinuncino, una volta per tutte, alla pratica di gonfiare oltre misura il bacino degli occupati pubblici. La Regione ha praticato con «successo» questo sport, creando negli anni decine di migliaia di occupati virtuali, dai dipendenti a tempo determinato ai forestali, dai formatori/formati alle società partecipate o controllate; i Comuni dal canto loro hanno scorrazzato nelle praterie delle ex municipalizzate, anche in questo caso con migliaia di persone che costano complessivamente tantissimo, che sono chiaramente sottoutilizzate e che non garantiscono neanche i livelli minimi di servizio pubblico. Dopo una crisi lunghissima e che si avvia ormai verso il quarto anno, la Sicilia è allo stremo. In queste condizioni di completa debacle resta obiettivamente inspiegabile che quasi dieci miliardi di euro di fondi europei e statali restino a ricoprirsi di polvere nei cassetti; specie alla luce della non banale riflessione che queste risorse hanno un termine di spesa che, una volta superato, ci porterebbe inevitabilmente al disimpegno.


Ci sarebbero tante modalità per impegnare i fondi europei, ma è indubbio che un programma di infrastrutture strategiche arrecherebbe almeno un doppio beneficio: da un lato permetterebbe l'attivazione immediata di migliaia di posti di lavoro nell'edilizia e nell'industria collegata, mentre dall'altro concorrerebbe a creare condizioni favorevoli agli investimenti ed allo sviluppo. Per essere più espliciti, realizzare ad esempio una rete di depuratori delle acque reflue a servizio delle popolazioni che vivono nelle fasce costiere, darebbe vita a molti cantieri ed a tanti posti di lavoro, ma stimolerebbe anche nuove attività ricettive e turistiche che sarebbero finalmente in grado di «vendere» un mare pulito, oltre che bello! Considerazioni analoghe si potrebbero fare per gli acquedotti o per il sistema autostradale o ancora per la manutenzione del sistema viario cosiddetto minore o magari per la manutenzione degli istituti scolastici. Per tacere che il numero di plessi scolastici in affitto in Sicilia risulta il doppio che nella media italiana.



Spesso si parla di beni culturali, di turismo e di agricoltura come di settori di grande potenzialità. E sicuramente lo sono. Senza volere fare paragoni insostenibili, è difficile però accettare che i siti culturali della Sicilia hanno registrato, tutti insieme, meno di quattro milioni di visitatori nell'ultimo anno, mentre gli Uffizi da soli ne hanno avuti dieci milioni ed i Musei vaticani cinque milioni. È vero, siamo ai confini dell'impero, ma forse sarebbe possibile fare di più per valorizzare un patrimonio di straordinaria bellezza e rarità. L'agricoltura siciliana ha un fatturato di 4 miliardi di euro all'anno, è tra le prime aree di produzione italiana, eppure vive il dramma continuo dell'espulsione di lavoratori, vede la più alta concentrazione di occupati in nero, ha più aziende agricole che dipendenti e soffre di una irrazionale polverizzazione. Nei primi nove mesi del 2011 abbiamo esportato prodotti agricoli freschi e trasformati per 670 milioni di euro e ne abbiamo importato per oltre 600 milioni.



Eppure si potrebbero fare tante cose. Assegnare a giovani agricoltori, associati tra loro, l'enorme patrimonio di boschi e terreni della Regione: si tratta di oltre due miliardi (non milioni!) di metri quadrati; incentivare con benefìci finanziari l'accorpamento delle aziende agricole che solo nell'1% dei casi superano i 50 ettari di superficie; favorire il potenziamento delle aziende alimentari per trasformare i nostri prodotti agricoli, e realizzare una volta per tutte un sistema irriguo degno di questo nome; in Sicilia le superfici irrigue misurano circa 300.000 ettari, rispetto ad una superficie coltivabile di 1,3 milioni di ettari! Enormi sono i deficit anche nel settore energetico; la Sicilia è il principale polmone energetico nazionale e ne ricava prezzi dell'energia più alti, pochi occupati e tantissimo inquinamento. Resterebbero altri punti e molti buchi neri da colmare. Pensiamo ad esempio al fatto che la metà di tutti gli addetti alla formazione d'Italia è in Sicilia, che i ritardi del pubblico nei pagamenti delle imprese sono insostenibili, che la farraginosità delle procedure burocratiche è soffocante, che i Confidi sono sempre in attesa di decollare.


L'elenco sarebbe lungo. Parlare di Sicilia senza parlare di Palermo é impossibile; un siciliano su quattro vive e lavora nella provincia capitale. Palermo tra poche settimane va al voto, non si sono sentite voci sul fatto che una legge dello Stato ha già sentenziato la fine delle ex municipalizzate e l'affidamento del servizio con gara pubblica. Il sistema delle ex municipalizzate ha generato una massa di debiti di circa 300 milioni di euro; questa massa di debiti (conosciuti), quelli (sconosciuti) cosiddetti fuori bilancio, i tagli del precedente e dell'attuale governo nazionale, la massa insostenibile degli stipendiati diretti ed indiretti, danno vita ad una situazione di maggiori spese e di minori entrate che configura tecnicamente il default del bilancio comunale. Forse sindacati ed imprese, ieri in corteo, pensavano anche a questo inestricabile nodo.

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