Qualche giorno fa, Giorgio Squinzi, imprenditore impegnato nella corsa alla presidenza della Confindustria nazionale, si è proposto con un programma in sei punti e cinquanta parole; non si può dire che il candidato confindustriale non abbia idee chiare e chiarezza nel porgerle. Ecco i punti: semplificazione normativo-burocratica; politiche fiscali non oppressive; politiche energetiche per ridurre il divario del 30% con il resto d'Europa; più credito alle piccole e medie imprese; tempi rapidi per i pagamenti da parte della pubblica amministrazione; più investimenti nelle infrastrutture materiali ed immateriali (scuola e formazione). Ma al di là della capacità di sintesi, sorprende la totale coincidenza di vedute con «l'avviso comune» lanciato dagli imprenditori e dai sindacati siciliani.
Il 16 dicembre del 2010 le categorie produttive siciliane misero in mora il governo regionale attraverso alcune puntuali richieste: trasparenza e semplificazione amministrativa; infrastrutture e grandi progetti; ritardi dei pagamenti; formazione; produzione di energia da fonti rinnovabili; acque e rifiuti; politiche sociali e sociosanitarie e credito. Insomma non sembrano le analisi quelle che difettano, quanto piuttosto le possibilità di dare loro seguito. Il problema della semplificazione normativa, ad esempio, è molto avvertito a tutti i livelli istituzionali.
La sua soluzione rappresenta infatti un obiettivo prioritario nell'ottica del rilancio della competitività, della crescita economica e del miglioramento delle relazioni cittadini-istituzioni. La Sicilia ha varato nell'aprile del 2011 una innovativa legge di semplificazione, la numero 5, con contenuti qualificanti: tempi rigidi per la conclusione dei procedimenti; conferenze di servizi per l' acquisizione dei pareri di amministrazioni diverse; segnalazione di inizio attività e contestuale inizio dei lavori; valutazione dei dipendenti pubblici; rilascio entro 75 giorni di una concessione edilizia, etc. Tra poco più di un mese la legge siciliana compirà un anno di vita. Con quali effetti? La meta non sembra ancora vicina. Sarebbe interessante un bilancio ufficiale ad un anno data. Resta sullo sfondo il tema dell'Amministrazione siciliana, con oltre 20 mila dipendenti e che fa fatica a trovare al proprio interno le professionalità necessarie. Non va certo meglio in materia di rifiuti; l'innovativa legge regionale 9 del 2010 avrebbe dovuto riscrivere le regole del comparto, ma non servono raffinate analisi per realizzare che siamo ancora al palo. Secondo la legge 9 la Sicilia, ad esempio, dovrebbe avere entro il 2012 il 40% di raccolta differenziata dei rifiuti, mentre restiamo sotto il 10%. E passiamo alle politiche fiscali.
Questo tema sarebbe risultato estraneo alle competenze locali fino a dieci anni fa; oggi, in tempi di federalismo, la distribuzione dei prelievi tra centro e periferie è una realtà. La Regione, dal canto suo, impone ai siciliani addizionali ed Irap con percentuali molto onerose per fare fronte ai deficit degli anni passati nella sanità; avrebbero dovuto essere prelievi temporanei ma si sa come vanno queste cose. Energia: da anni si parla di green economy, inglesismo per indicare le enormi potenzialità di investimento, riduzione dei costi e creazione di occupazione, legate all'introduzione delle energie rinnovabili. La Sicilia, è stato detto tante volte, è la piattaforma energetica del Paese. Fornisce in grandi quantità carburanti, metano, energia elettrica. Ne ricava prezzi più alti che altrove, pochi posti di lavoro, nessun introito fiscale, una rete di distribuzione elettrica obsoleta, una rete di distribuzione carburanti anacronistica ed una massiccia presenza di imprese inquinanti. Da anni rincorriamo il miraggio delle energie rinnovabili. In questo settore i fondi europei potrebbero essere spesi con ritorni benèfici. Nella media nazionale si ricava il 22% dalle rinnovabili, in Sicilia siamo fermi al 7%.
Chissà che fine ha fatto il Piano Energetico Regionale! Dall'energia al credito, il passo è lungo ma l'esito il medesimo. Con poca responsabilità della Regione, il denaro in Sicilia si paga molto caro; in media il 2,5% in più che nel resto d'Italia. Ma se andiamo a considerare i tempi medi di pagamento della Regione verso i fornitori, in una regione dove la spesa pubblica è prioritaria rispetto alla spesa privata, allora le responsabilità emergono. In Sicilia la dotazione di infrastrutture è largamente insufficiente; un dato per tutti: a Catania soltanto il 25% della popolazione è servito da impianti di depurazione delle acque reflue! E tuttavia l'associazione dei costruttori denuncia la caduta delle opere pubbliche messe a gara e la contestuale espulsione dal mercato di 40 mila addetti negli ultimi tre anni. Se questo è il quadro delle infrastrutture materiali, è meglio stendere un velo pietoso sulle infrastrutture immateriali, come la formazione! Non va certo meglio per le altre imprese.
Da gennaio a giugno di quest'anno le imprese siciliane che hanno abbassato la saracinesca sono state molte di più di quelle che hanno invece iniziato l'attività. Il bilancio di un semestre, secondo i dati raccolti da Unioncamere, è di quasi tre mila imprese in meno nel mercato isolano; i problemi del credito non le aiutano di sicuro. In realtà non è tempo di campagne elettorali per la Regione, ma questo scorcio di legislatura, in uno alla rinnovata e dichiarata volontà di recuperare i fondi europei ancora non spesi, potrebbe essere utilmente impegnato. Certo lasciano perplessi i "boatos" che accompagno la scelta dei candidati a sindaco di Palermo e i contestuali silenzi sulle possibili strategie per rilanciare questa Città; persino l'autorevole richiamo del Cardinale di Palermo non ha sortito gli effetti desiderati.