Una volta tanto la Globalizzazione ha funzionato. Sul piano meno atteso, quello militare e in una sottospecie che gli storici avevano dato già per estinta: la guerra contro i Pirati. Erano undici gli scalcagnati scorridori dei mari, partiti su una imbarcazione minima da un qualche porto clandestino nel caos che si chiama Somalia. Anche le loro "prede" erano di serie B: un cargo italiano che aveva imbarcato rottami ferrosi in Inghilterra per trasportarli nel Vietnam, in un viaggio che doveva durare settimane anche senza l'intrusione. Non proprio un galeone dei tempi d'oro dei Corsari ma che correva seri rischi. Lo hanno abbordato in pieno Oceano Indiano, mille chilometri a Ovest della costa somala. C'erano dentro una ventina di civili, di cui sette italiani; il resto indiani e ucraini. Disarmati non hanno potuto che arrendersi. Ma avevano, ecco la novità, le spalle coperte. Da tutto il mondo civile. Nel tratto giudicato più pericoloso la teneva d'occhio una nave da guerra giapponese, che è poi tornata indietro una volta passata l'area indicata dalle mappe della protezione. Ed è venuto l'abbordaggio, la cattura, la richiesta di riscatto. Tutto come al solito nella più povera delle risme della pirateria. Ma qualcuno vegliava. Al di là del "settore" nipponico si entrava, loro lo sapevano, in un'area di protezione Nato. In un settore, anzi, proprio sotto comando italiano. Il "responsabile", l'ammiraglio Mattesi, aveva ai suoi ordini, e può essere una sorpresa in più, mezzi e uomini di varie nazionalità, cittadini di un Paese che dovrebbe esistere solo in casi e in tempi di guerra. C'erano anche degli italiani, ma più lontani dal «punto x». I più vicini erano probabilmente i più preparati, i più esperti, i più specializzati: britannici, con un po' di aiuto americano. Con le radici nella flotta più potente della storia d'Europa e del mondo, citati nel più orgoglioso inno ad Albione: «Britannia rules the waves / Britons'll never slaves». Nel loro "sangue" che crea le abitudini, eredi dei distruttori della Invencible Armada e dei trionfatori di Trafalgar al comando di Nelson, ma anche dei fortunati Corsari alla Drake. Dei poveri piratini somali hanno fatto un boccone senza spargimento di sangue. Non è la prima volta che accade e l'episodio rivela le proporzioni del fenomeno. Ma anche la sua persistenza, che è uno dei tanti paradossi del ventunesimo secolo. La pirateria era stata giudicata estinta già nell'Ottocento. Ma anche tante altre volte prima, quando era più robusta, audace, scervellata. Uno dei primi e certo il più famoso cacciatore di pirati si chiamava niente meno che Giulio Cesare, che li aveva provati sulla sua pelle quando lo avevano catturato nel Mediterraneo. Pagò il riscatto, aspettò il suo momento, si vendicò. Non ne rimase uno vivo. Questa riedizione dovrebbe essere assai meno cruenta: la "internazionale" antipirateria ha ormai i mezzi per essere forte senza bisogno di esagerare. Il Mare contiene di questi tempi meno violenza e lutti che la terraferma o il cielo. Ed è anche un esempio di come una collaborazione possa essere veramente internazionale, al di là degli schieramenti e delle contrapposizioni. I pirati della Somalia non sono tutti somali e provengono anche dalle fasce di miseria e di totale illegalità di uno "Stato fallito" come quella ex colonia italiana. In alto mare la Nato funziona senza frizioni. E non è sola. Se allo sbocco del mar Rosso nell'Oceano Indiano accompagnavano l'avventurosa barca "tricolore" delle navi giapponesi, più in là, più vicini all'India, ci sono battelli militari russi, più a Sud australiani. I francesi sono molto presenti e anche la Cina, la meno marinara fra le grandi potenze della storia, ha detto di voler fare la sua parte. È quindi ora più una curiosità che una minaccia la ricomparsa dei pirati sugli atlanti del ventunesimo secolo. Quei somali non sono figli né eredi di Bin Laden. Di Sandokan, semmai. Un'atmosfera ottocentesca accompagna e stempera una vicenda ben attuale e non condonabile. Avventuroso perfino il nome della nave: "Montecristo".
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