Barbra è una ragazza ebrea americana di origine polacca che dovrebbe mettersi a dieta. È efficiente, gentile, inflessibile. Lavora per la Port Authority di New York e insieme con molti colleghi accompagna in questi giorni centinaia di troupe e di giornalisti di tutto il mondo a vedere Ground Zero. Un'ora per ogni troupe e non un minuto di più. Barbra verifica che tutti indossino le scarpe da lavoro, il giubbotto rifrangente, il casco e gli occhiali protettivi per entrare nel gigantesco cantiere dove cinquemila operai si danno il turno 24 ore al giorno, sette giorni su sette. Poi passa la sua ora giocando con l'I Phone e chiamando al telefono gli amici. Per lei il Terrore e la Speranza sono ormai routine. Per noi la pagina di un libro di fantascienza.
Quando il grande montacarichi sale al 39simo degli ottanta piani su 105 già alzati della Torre numero 1 accarezzando le pareti di specchio, penso a quando vent'anni fa facevo lo stesso percorso con i miei figli piccoli che tenevano il naso schiacciato sul cristallo dell'ascensore come per guardare il mondo dalla cima alle Twin Towers. Per loro quei due grattacieli erano il simbolo della nuova America, come per me lo era stato l'Empire State Building che ora ammiravamo dall'alto in basso. Da lì sopra - senza poter accedere al ristorante perché loro non avevano giacca e cravatta e l'America era ancora formale - gli mostravo la Statua della Libertà, che per milioni di nostri emigranti era il simbolo mitico e inquietante di una nuova vita di un nuovo paese di cui non sapevano nulla. Adesso guardo con angoscia la Statua dai contorni incerti per la foschia di queste giornate di pioggia battente. E dal montacarichi che sale, al posto delle Torri Gemelle, vedo due grandi buchi pieni d'acqua. Sono le «piscine della riflessione», come le chiama Michael Arad, l'architetto americano di origine israeliana che nel 2006 ha vinto la gara per costruire il National September 11 Memorial & Museum. Viste da vicino, le più grandi cascate d'acqua mai realizzate negli Stati Uniti non suggeriscono allegria, ma appunto riflessione su quello che è stato. E a ricordarcelo meglio sono i 2974 nomi scolpiti sui fianchi di entrambe le piscine: tante furono le vittime degli spettacolari attentati di Al Qaeda, costati agli americani venti miliardi di dollari solo per restaurare la linea d'orizzonte di New York e 1400 miliardi di perdita nella quotazione dei titoli in borsa nei giorni successivi all'attacco. Barbra mi chiede di non far fermare la telecamera su nessuno dei singoli nomi, ma di esprimerne con inquadrature larghe solo il senso collettivo del sacrificio. Le persone scomparse (solo di 1600 sono stati trovati corpi che meritino questo nome) non sono raggruppate in ordine alfabetico, ma per categorie o gruppi di lavoro. I 364 pompieri, i 60 agenti di polizia, gli impiegati dello stesso ufficio. Quella mattina qua dentro erano al lavoro 17.400 persone di 90 nazioni e adesso avevo tra le mani un paio di scarpe da donna uguali a quelle con cui Linda Lopez, una signora ispanica che lavorava al 97 piano della Torre Sud, è corsa trafelata per le scale incitando a scendere migliaia di colleghi dopo aver visto il primo aereo centrare la vicinissima Torre Nord. Arrivò a terra con i piedi sanguinanti, ma viva. Chi non la seguì, pensando ragionevolmente che la seconda torre non sarebbe stata colpita, ha ora il nome inciso ai bordi delle fontane.
La nuova torre dove sono salito si chiamerà 1 World Trade Center e per i figli dei miei figli sarà un grattacielo come un altro: il più alto d'America, gli spiegheranno. Oggi si chiama ancora Freedom Tower, Torre della Libertà e sarà alta, antennone compreso, 1776 piedi (540 metri) in memoria dell'anno in cui fu proclamata d'indipendenza degli Stati Uniti dall'Inghilterra. Sarà completata nel 2014. La torre che vedo in costruzione più in basso sarà la numero 4 (297 metri, 72 piani) e sarà finita nel '13. Altre due torri di 88 e 80 piani saranno completate una nel '15 e l'altra chissà quando, perché la crisi ha fermato per ora la raccolta di fondi. Tra l'una e l'altra, un boschetto ancora fragile di 400 querce bianche (tanti i pompieri e i poliziotti caduti) che si stringono intorno a un albero di pero, l'unico superstite dell'11 settembre. Ora protetto da una gabbia circolare in ferro, perché gli americani credono ai simboli come nessun altro.
«L'America è un'idea, un'idea di libertà», sta scritto sul fianco di una grossa auto della polizia messa all'ingresso del compound che domenica sarà inaugurato da Obama e da lunedì in parte aperto al pubblico. Quell'idea resta viva in un mondo molto cambiato (e in peggio) rispetto a dieci anni fa. La morte di Osama bin Laden, simbolo del terrore anti occidentale, è già stata spedita tra le memorie lontane da una crisi economica che morde l'America. (Eppure frotte di avventori vocianti allegramente non lasciano un centimetro di spazio libero nei ristoranti alternativi del Village e non si trova un tavolo disponibile nei ristoranti di lusso di Soho e del West Side. Come è accaduto d'altra parte da noi durante le vacanze...). Obama vuole guardare avanti, ma è il primo presidente che si trova a gestire un paese che se è ancora la prima superpotenza militare del mondo (e i militari qui sono ancora in cima ai sondaggi), non lo è più nel fatturato e nel colonialismo economico. La crisi gli morde il fondo dei pantaloni e lui sa che domenica anche i suoi avversari si porteranno la mano sul petto cantando a una sola voce l'inno nazionale. Ma da lunedì si giocherà la rielezione sulla base di quel che accade a Wall Street.