Mentre si rincorrono le notizie più diverse sulla sorte di Gheddafi, compresa quella che i ribelli lo avrebbero trovato rintanato in una buca vicino alla sua ex-fortezza insieme con i suoi figli, il fatto più significativo della giornata è che il ministro della Difesa britannico ha ammesso per la prima volta che la Nato sta collaborando attivamente nel cercarlo.
Tra satelliti, aerei senza pilota e altri strumenti tecnologici, ha certo più probabilità di scovarlo che non i reparti ribelli entrati a Tripoli, che faticano già a completare l'occupazione della città.
Evidentemente, le potenze occidentali impegnate nell'operazione temono che, senza la cattura (o l'uccisione certificata) del Rais e dei suoi familiari, e con alcune parti del Paese ancora nella mani dei lealisti, la guerra civile possa trascinarsi al di là della fine del loro mandato nella seconda metà di settembre e si risolva in un inestricabile quanto interminabile scontro tribale sul modello iracheno.
Sebbene sia Sarkozy, sia lo stesso Berlusconi, abbiano ricevuto il presidente del Comitato transitorio Jibril con tutti gli onori e gli abbiano promesso la massima assistenza per la ricostruzione del Paese, nessuno può essere sicuro che sarà lui a guidare il nuovo governo o che avrà l'autorità necessaria per farlo in maniera efficiente.
«Inutile illudersi, andiamo verso l'ignoto» ha ammesso un alto funzionario del Dipartimento di Stato americano «soprattutto sul piano del mantenimento della legalità». Sembra confermare questa diagnosi anche la cattura dei quattro giornalisti italiani da parte di quella che sembra una banda di predoni e poi liberati (anche qui sembra) da due fedeli del colonnello. Il problema è di sapere chi è in grado di svolgere questo compito, tenuto conto che la Nato esclude l'invio di truppe sul terreno e l'ipotesi dei Caschi blu, ventilata su queste colonne ieri dal generale Cabigiosu, appare almeno per ora altrettanto remota.
Mentre nelle strade di Tripoli, intorno a Sirte e nella profondità del Fezzan si continua a combattere accanitamente, gli analisti cominciano anche a chiedersi quale sarà l'impatto della vicenda libica sulla cosiddetta primavera araba. I giovani che hanno rovesciato Ben Ali e Mubarak e che appaiono sempre più intrisi di nazionalismo (compreso un rilancio dei sentimenti antisraeliani) non sono certo felici del ruolo decisivo avuto dall'Occidente nell'abbattimento di Gheddafi e tenderanno a considerare Jibril un «lacchè del neocolonialismo». Questo faciliterà sicuramente gli islamisti, che finora hanno mantenuto un basso profilo in Libia, ma sono pronti a riempire eventuali vuoti.
In ogni caso, il momento in cui si potrà riprendere la produzione di idrocarburi, che forniva il 95% delle risorse finanziarie del Paese, appare ancora abbastanza lontano.
Anche sugli altri fronti mediorientali gli sviluppi non sono quelli sperati. Nonostante le sanzioni, i perentori inviti a dimettersi e l'abbandono anche di una parte degli arabi, Assad non sembra avere alcuna intenzione di andarsene e potrà ora usare l'esempio libico per incoraggiare i suoi fedeli a resistere fino in fondo. Nello Yemen, un altro Paese in cui, sullo slancio di Tunisi e del Cairo, la piazza pareva in grado di instaurare un nuovo ordine, il presidente Saleh rimane al potere, si continua a spargere inutilmente sangue e l'unico risultato certo è che «Al Qaeda» nella penisola arabica si è ritagliata uno spazio importante nelle montagne dell'interno, dove potrà addestrare i suoi uomini come faceva a suo tempo in Afghanistan.
Gheddafi catturato o no, non è certo tempo di trionfalismi.
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