Il tragico susseguirsi di incidenti mortali sulle strade siciliane, in questa prima metà del mese di agosto, suscita la spontanea preoccupazione di chi, in nome del semplice buon senso, non può non chiedersi come sia possibile gettare via in questo modo la propria vita e quella di altri, coinvolti loro malgrado in questa follia. La gravità del fenomeno induce però, al tempo stesso, a fare alcune riflessioni più di fondo.
Il traffico stradale è diventato una metafora della nostra vita di uomini e donne del XXI secolo. Il primo elemento che colpisce è l’ansia di far presto, in una corsa contro il tempo che ormai caratterizza ogni nostra attività. Come il Bianconiglio di Alice nel paese delle meraviglie, abbiamo l'aria di essere sempre in ritardo ad un appuntamento decisivo, con la differenza che noi non sapremmo dire quale sia esattamente il nostro. Con i mezzi di comunicazione che abbiamo a disposizione (telefonini, tv, internet) abbiamo trovato il modo di cancellare le distanze. Con quelli di trasporto (aerei, automobili, treni ad alta velocità) le abbiamo enormemente ridotte. Eppure, l'ansia di cui parlavamo aumenta in modo esponenziale. Grazie ai progressi della medicina, viviamo più a lungo. Ma rincorriamo i minuti, le ore, i giorni, come se ci sfuggissero tra le dita, con una specie di voracità, col perenne terrore di perdere qualcosa. Il mito dell’«attimo fuggente» è ormai così radicato nell’immaginario collettivo che non si vuole correre il rischio di sprecarne neppure uno.
Da qui il culto della velocità. Non solo di quella funzionale a un obiettivo reale, ma della velocità come tale. Mentre si eclissa, nella nostra società, l'orizzonte delle mete condivise, ci accomuna la fretta di raggiungerle, anche se non sappiamo più bene quali siano. In molti casi non sappiamo più cosa sia meglio fare, ma vogliamo farlo presto.
Perciò le persone protagoniste degli incidenti stradali spesso sono giovani che non vanno, ma ritornano. Dalla discoteca, da un locale notturno, da una festa. La loro tragica corsa non era motivata da una scadenza, da un obiettivo impellente. Era fine a se stessa. Era il loro modo di vivere, ed è diventato il loro modo di morire. La frenetica ricerca di un divertimento che sempre più spesso - proprio a causa di questo esasperato dinamismo - ha bisogno di essere alimentato con forti stimoli ed eccitanti di vario genere (alcool, sigarette, talvolta droga), non si placa neanche quando le musiche assordanti, i balli convulsi, la vertigine dei corpi e dei volti intorno, finiscono. Il piede che pressa l'acceleratore ne è un'ultima espressione - la più pericolosa.
Forse, sin da questo giorno di Ferragosto, dovremmo rivalutare il concetto di «calma», di quella lentezza, cioè, che non è impaccio, ma frutto di un'intima pace interiore e rinunzia a fuggire in avanti, verso ciò che ancora non è, per avere la possibilità di guardare con occhi limpidi, non offuscati dall'impazienza, la realtà che ci circonda, gustandone le innumerevoli sfumature. Inseguire il tempo dà l'illusione di guadagnarne, ma in realtà ci fa correre il rischio di bruciarlo. Accade così, spesso, che siamo sempre al di là, psicologicamente, del momento in cui effettivamente ci troviamo, con la conseguenza che non riusciamo a viverlo.
Si racconta che un anziano maestro, a cui un discepolo aveva chiesto cosa sia la saggezza, abbia risposto: «Saggezza è essere seduti quando si è seduti, in piedi quando si è in piedi, camminare quando si cammina». Il discepolo rimase molto perplesso: «Ma questo - osservò timidamente - è ciò che fanno tutti!». «No», spiegò il maestro: «Molti, quando sono seduti, pensano già a quando saranno in piedi, quando sono in piedi a quando cammineranno, quando camminano a quando saranno arrivati».
È ciò che accade a chi corre sulle strade. La lancetta che si sposta sul tachimetro è una promessa che il futuro fra poco sarà presente. La mente già va a questo immaginario punto d'arrivo, senza percepire ciò che in effetti sta accadendo. Si perde il senso della realtà, con le sue opportunità, i suoi limiti, i suoi pericoli. La metafora della vita, dicevamo prima. Della nostra vita che così spesso, proiettata verso un «non ancora» che è solo un miraggio, dimentica di fermarsi a godere dell'ora presente, la sola che effettivamente ci è dato di abitare e di cui, se smettiamo di temere nevroticamente che ci sfugga, possiamo con semplicità godere.