Nessuno immaginava che sei mesi dopo lo scoppio della rivolta contro Gheddafi e cinque mesi dopo la risoluzione del Consiglio di sicurezza che ha dato il la alle operazioni militari della Nato, il colonnello e il suo clan potessero essere ancora al potere. Invece, benché la Nato abbia dato un'interpretazione decisamente estensiva al mandato di proteggere la popolazione civile contro le rappresaglie del Rais, arrivando a bombardare la sua residenza e la sua televisione e a uccidergli uno o forse due figli (la morte di Khamis, annunciata ieri dai ribelli, è stata smentita), egli rimane padrone della capitale, di buona parte della Tripolitania e dei principali terminali petroliferi e si permette di continuare a sfidare la comunità internazionale.
Se non è da prendere molto sul serio il missile caduto a un miglio dal nostro «Bersagliere», non è il caso di sottovalutare né le minacce proferite contro i leader europei che hanno riconosciuto i ribelli né l'annuncio dato dal figlio Saif al New York Times di un accordo con gli ex nemici islamisti in funzione antioccidentale, smentito solo a mezza bocca dal loro capo Ali Sillabi.
Non c'è dubbio che Gheddafi sia indebolito, costretto a dormire in scuole e ospedali per sfuggire ai bombardamenti, ormai a corto di liquidi e di carburante e con il potenziale militare severamente ridotto, ma si sente ancora abbastanza forte per rifiutare ogni trattativa che non contempli la sua permanenza al potere. Francia e Gran Bretagna, i Paesi più impegnati contro di lui, gli hanno anche offerto, una decina di giorni fa, la possibilità di rimanere in Libia dopo l'abdicazione - sfuggendo così al mandato di cattura della Corte di Giustizia dell'Aja - ma la risposta è stata uno dei suoi discorsi più incendiari.
A giocare oggi a favore del Rais ci sono diversi elementi. Primo, la scadenza, tra poco più di un mese, del mandato della Nato, che visto anche il disimpegno dell'America e le difficoltà dell'Italia potrebbe non essere rinnovato; secondo, il sopravvenire del Ramadan, che per tutto il mese di agosto imporrà una qualche forma di tregua; terzo, e forse più importante, la sempre minore affidabilità del Consiglio transitorio di Bengasi, pur riconosciuto da Stati Uniti, Italia, Francia, Gran Bretagna e perfino dagli Emirati Arabi Uniti (ma non dalla Lega araba) come unico rappresentante legittimo della Libia. Dopo l'assassinio, tuttora misterioso e impunito, del generale Younes, l'ex ministro degli interni di Gheddafi diventato comandante delle forze armate ribelli e sospettato di essere una quinta colonna del Rais, nell'organismo rivoluzionario sono apparse profonde spaccature: la potente tribù degli Obeidi, cui Younes apparteneva, minaccia vendetta, e l'ambiguo atteggiamento degli islamisti, che non gradiscono di certo la ipoteca franco-britannica sul Consiglio, fa presagire ulteriori complicazioni.
La comunità internazionale continua a puntare su una implosione del regime e si adopera per favorirla. Sarebbe l'unico modo per evitare una frattura permanente tra Tripolitania e Cirenaica, che non è nell'interesse di nessuno. Ma, contrariamente alle apparenze, il tempo non gioca a nostro favore e se a fine settembre perdurasse l'attuale stallo bisognerebbe ridare spazio alla diplomazia più di quanto si sia fatto finora. Se anche Gheddafi ce l'ha giurata, l'Italia, che ha in Libia gli interessi maggiori e dove la nostra partecipazione al conflitto incontra sempre minori consensi, dovrebbe cominciare a muoversi in questo senso, perché solo la fine della guerra civile permetterà una ripresa delle forniture di petrolio e di gas che, nell'attuale congiuntura, ci sono più che mai indispensabili.
In una intervista al «Giornale», il portavoce del colonnello, Khaled al Qaim, ha sostenuto che «ci sono ancora porte aperte e siamo in contatto con ministri italiani, della Lega nord, ma non solo». Può essere una delle tante menzogne del regime, ma non è il caso di lasciarla cadere.
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