In un Paese che cresce poco e che fatica a ritrovare la via dello sviluppo, la Sicilia arranca, appesantita com’è dal carico improprio che le hanno scaricato addosso decenni di facile spesa, con eserciti di personale e una paurosa stratificazione di privilegi. Prima ancora del dato statistico, le evidenze di tutti i giorni fanno emergere in maniera inequivocabile la fine di un modello. Un modello che ha affidato ogni speranza di crescita e di sviluppo esclusivamente alla dilatazione della spesa corrente e alla formazione di eserciti di precari.
E a Palermo? Questo modello si è esasperato.
Il presidente della Camera di Commercio, Roberto Helg, nel presentare l’osservatorio economico della provincia, ha iniziato il proprio intervento denunciando una situazione di «pericoloso allarme sociale». Soltanto il sistema di questa città, forte di una collaudata solidarietà familiare, ha permesso che il quadro non degenerasse in un conflitto sul modello black block. Con un’aggravante però. Se un giorno arrivassimo alle tensioni di piazza - che nessuno auspica ma che alcuni temono - sui vessilli dei nuovi antagonisti non troveremmo la scritta «No Tav» o magari «No ponte»; rischiamo di trovare un ben più drammatico «Ho fame»! Perché è proprio questa la strada imboccata dalla Sicilia e da Palermo. Una situazione che si fotografa nell’ingessamento dei conti pubblici fin qui spremuti gonfiando oltre ogni misura la spesa corrente; ipotecando il futuro, perché del personale in eccesso comunque bisognerà farsi carico; zavorrando il sistema dei servizi pubblici che nello stesso sovrannumero del personale trovano il principale ostacolo alla produttività e all’efficienza. In cinque anni Palermo ha visto partire circa 25.000 residenti e arrivare altrettanti immigrati. Invoca i fondi statali e non spende i fondi europei; nel frattempo le casse comunali devono pagare ogni mese 22.000 stipendi. Che altro aggiungere? Una pagina si è chiusa. I vecchi sistemi non funzionano più. Si sarà in grado di aprirne un’altra?
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