Per quello che ne sappiamo finora, può essere stata la routine del terrorismo quotidiano oppure una «operazione vendetta», il segnale di una controffensiva dei commilitoni di Osama Bin Laden. Oppure, naturalmente, una via di mezzo, cioè una miscela fra una strategia e una opportunità. Indurrebbe a propendere per la "normale" manovalanza del terrore la sigla poco nota con cui gli autori della strage l'hanno rivendicata e reclamizzata. Fa pensare a qualcosa di più la scelta dell'obiettivo, che diversamente dal solito non è terrorismo cieco bensì riguarda un obiettivo a suo modo militare. I morti e le centinaia di feriti in un posto di frontiera tra il Pakistan e l'Afghanistan erano reclute di quello che agli estremisti non può che apparire come uno strumento della repressione, una milizia a modo suo "collaborazionista" anche se in realtà si tratta dell'esercito regolare pachistano.
Cioè di quello Stato che da molti anni (forse addirittura dal giorno stesso della sua fondazione) paga le sue ambiguità genetiche, la sua collocazione ideologica, religiosa, etnica e geografica. Una "terra di frontiera" ai margini del mondo civile ma anche delle strutture di due "Stati falliti": l'Afghanistan che non è mai stato un Paese e ha anzi coerentemente rifiutato di diventarlo e il Pakistan che ci ha provato anche con tenacia ma sempre incappando nei suoi mali di origine.
Il "piccolo" Afghanistan (per popolazione anche se non per dimensioni) e il Pakistan che, assai esteso invece e avviato verso i duecento milioni di abitanti, ma privo anch'esso di una consistenza etnica e, ancor più, di frontiere naturali, tenuto insieme soltanto dalla religione, composto di indiani musulmani che rifiutano di essere indiani, che hanno voluto secedere il giorno in cui l'India e uscita dal colonialismo ma che continuano a vivere in una realtà in grande misura determinata dall'India. Fra le sue molte contraddizioni, essenziale è per il Pakistan questo rapporto con la Sorella Maggiore di Nuova Delhi, indù ma "laica", democrazia imperfetta, avviata oggi a divenire superpotenza globale. Questo va ricordato perché è anche la radice delle ambiguità pachistane nei confronti del terrorismo e in particolare proprio di Al Qaida e di Bin Laden. Durante e dopo tre guerre con l'India tutte perdute, il Pakistan è stato costretto durante la Guerra Fredda a una scelta di campo filoamericana a causa dell'"amicizia" indiana con l'Unione Sovietica. Era in un certo senso destinato, dunque, a diventare la fonte di sostentamento e dunque la culla di Al Qaida e l'ultimo rifugio di Bin Laden, ospitandolo in un gesto di omertà e cooperando contemporaneamente con coloro che gli davano la caccia. Un "doppio gioco" obbligato che gli viene oggi rinfacciato da ambedue le parti, dall'America e da coloro che odiano l'America.
Strascico o apertura di una nuova fase? Attacco a un obiettivo particolarmente vulnerabile o inaugurazione di una nuova campagna di terrorismo planetario? Potrebbero indicarlo le parole con cui ha rivendicato l'attacco suicida una organizzazione relativamente poco nota, non all'"altezza" della "base" che Bin Laden fondò quando era ancora fresca la sua gloria di combattente antisovietico. È troppo presto, dunque, per poter parlare di rappresaglia e di vendetta per la sua eliminazione, anche se in casi come questo è comprensibile che ululino le sirene di un Allarme Rosso planetario. Almeno questo successo i terroristi potranno coglierlo comunque. Dovrà passare parecchio tempo prima che il mondo possa sapere se quella del 13 maggio 2011 sia l'apertura di un "nuovo fronte" nel decennale di quell'11 settembre, oppure l'ennesima scaramuccia di una guerra che dura da ben più di 10 anni.
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