L’uscita pubblica di Asor Rosa che ha invocato una sospensione esplicita della democrazia pluralistica e l'intervento diretto di carabinieri e magistrati che provvisoriamente assumerebbero tutto il potere politico per mettere fine, senza elezioni, al "berlusconismo", non può essere liquidata come una boutade. Al contrario, essa esprime, senza i veli del politicamente corretto, alcuni atteggiamenti diffusi nella cultura politica del Paese.
In Italia, come ripeto da anni e come ormai molti commentatori riconoscono, la Seconda repubblica è nata con una cultura che vede la politica, anche quella interna, costruita esclusivamente attorno alla coppia "amico-nemico". Perciò è mancato il riconoscimento reciproco delle parti, che è normale in tutte le democrazie maggioritarie, dove la competizione politica avviene tra parti che, pur nelle differenze di valori e di programmi, si riconoscono come componenti di una "casa comune", di una democrazia al cui buon funzionamento entrambe concorrono.
Nelle democrazie pluralistiche, indipendentemente da chi momentaneamente governa, esiste una comunità politica più ampia che ricomprende tutte le forze politiche che concorrono a definire una comune identità politico-costituzionale. Se questo reciproco riconoscimento e la lealtà alla superiore identità politico-costituzionale mancano, allora le istituzioni hanno una debole legittimazione che le rende fragili e pronte a crollare quando l'intensità del conflitto diventa molto alta. Infatti, le istituzioni non sono considerate come un patrimonio comune, come il più importante dei beni pubblici che esistono nell'interesse di tutti. Piuttosto, nel nostro sistema politico, le istituzioni sono viste come postazioni da occupare per condurre la guerra al nemico, oppure come casematte da cui il nemico lancia i suoi attacchi.
Alla fine tutte le istituzioni ne escono delegittimate e indebolite nella loro credibilità: governo, parlamento, magistratura, regioni, csm, corte costituzionale. Ogni fazione tenderà ad esaltare il ruolo, il valore e la forza di quelle istituzioni con cui la fazione si identifica e dalla quale crede di ottenere vantaggi, mentre le altre sono viste come strumento del nemico e perciò prive di legittimità, contro le quali occorre combattere. Gli antiberlusconiani denigrano il governo ed il parlamento, non più luogo sacro della democrazia ma teatro del malaffare, mentre i berlusconiani lanciano i loro strali contro la magistratura e soprattutto contro alcune procure, non più istituzioni di promozione della legalità ma formidabili macchine da guerra al servizio di un'ideologia. Da queste dinamiche lo Stato ne esce distrutto, disarticolato, privo di legittimazione.
Ora, col suo articolo Asor Rosa, storico intellettuale di sinistra, porta alle estreme conseguenze il tipo di atteggiamento sopra descritto. Se l'attuale politica è guerra tra nemici, che non si riconoscono reciprocamente legittimità, se c'è un'opposizione irriducibile tra istituzioni, che non sono articolazioni della comune casa democratica, ma strumento di lotta, se non esiste una comune identità politico costituzionale, allora si può arrivare a invocare la sospensione della democrazia formale, e l'intervento di magistratura e carabinieri per eliminare definitivamente la fazione nemica.
Purtroppo, si tratta di un'ipotesi ricorrente nel pensiero e nella prassi politica. Il costituzionalismo ed il pluralismo avevano messo un argine al riemergere di questa ipotesi, esaltando il valore del principio di tolleranza - grande conquista seguita alle guerre di religione del XVII secolo - ma la tormentata storia d'Europa ha sempre dovuto fare i conti con la tendenza ad identificare una fazione con il tutto in modo da eliminare per sempre l'avversario politico. La storia d'Italia, poi, è stata contraddistinta, a partire dall'unita faticosamente raggiunta, da regimi bloccati, senza ricambio effettivo di classe politica e con opposizioni al regime che predicavano la rottura traumatica con il passato. Cosa che è puntualmente avvenuta, per cui, come ha scritto Massimo Salvadori, in Italia ci sono stati almeno tre Stati: lo stato monarchico, lo stato fascista, lo stato democratico repubblicano fondato sui partiti di massa. Ciascuno di essi è finito in una crisi di regime, che ha prodotto una nuova forma politica.
Di fronte all'attuale esasperazione del conflitto il copione potrebbe ripetersi, perché la guerra tra le opposte fazioni sembra avere raggiunto un punto di non ritorno, superato il quale c'è spazio solo per la vittoria o la sconfitta definitive. Se questo è purtroppo uno scenario credibile, l'ottimismo della volontà dovrebbe però portare a spingere per non interrompere i tentativi, che pure ci sono stati, di trovare le ragioni dello stare insieme, di definire una base comune di valori su cui edificare una condivisa identità politico-costituzionale. Le recenti celebrazioni dei centocinquanta anni dell'unità d'Italia hanno evidenziato che nel Paese vi sono tracce consistenti di un comune ethos politico.
Ma chi dovrà e potrà concorrere al consolidamento di questa comune identità che attenui il conflitto tra fazioni, per trasformarle da nemici in competitori che si legittimano reciprocamente? È difficilissimo rispondere a tale quesito, ma se la domanda resterà inevasa corriamo il serio rischio di assistere alla fine della Seconda Repubblica oltre la quale non sappiamo cosa ci aspetta e dove potrebbe esserci la crisi irreversibile del giovane Stato italiano. Una speranza comunque io nutro, e cioè che le istituzioni sociali, morali, culturali che pure esistono nel Paese sappiano alimentare una cultura di coesione nazionale e di salvaguardia democratica. In questa sfida veramente epocale, lasciatemelo dire, credo che un ruolo importante potrebbe svolgere la Chiesa cattolica, se sarà in grado di svolgere un discorso pubblico aperto alle ragioni dei laici e capace di evidenziare l'importanza della ragione, in luogo delle passioni, nella costruzione della città terrena.
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