Rivoluzione fu, adesso è guerra. La rivoluzione democratica sognata si è trasformata in una delle «guerre per la democrazia» condotta da potenze straniere. E forse, nella migliore delle ipotesi, in guerra lampo, se c’è da credere stavolta al cessate il fuoco unilaterale annunciato dal portavoce dell’esercito libico. Sempre nella migliore delle ipotesi, il tumulto festoso dei primi giorni ha condotto a una soluzione militare imposta dall’alto con le bombe sganciate dagli aerei americani, inglesi, francesi e danesi (sinora). A qualche cittadino di Bengasi, forse, non è stato facile in queste ore distinguere fra gli ordigni lanciati da Gheddafi contro la loro città ribelle e quelli mirati dai francesi contro le aree controllate dalla repressione.
Ci eravamo illusi che anche in Libia potesse fiorire una «primavera» alla tunisina o all'egiziana: ci svegliamo in uno scenario che richiama piuttosto Bagdad. Un dittatore inviso era sul punto di essere rovesciato dal suo popolo, e sarebbe stato il più clamoroso e benvenuto successo nella esile storia del sentimento democratico in un Paese arabo e musulmano e adesso lo sarà, nella migliore delle ipotesi, dalla forza e dalla potenza straniere, con conseguenze psicologiche che non potranno che essere radicalmente diverse. Forse non c'erano davvero alternative, non dopo che i «lealisti» del dittatore si erano apparentemente rimangiati l'ultima promessa di tregua.
In realtà la decisione di intervenire era già stata presa dai Paesi Nato nonostante le riserve di alcuni e i gesti di buona volontà fino all'ultimo del presidente americano.
A malincuore gli Stati Uniti di Barack Obama partecipano a questo conflitto, il primo condotto da una volontà europea, o perlomeno di alcuni Paesi europei. Il paragone con l'attacco all'Iraq di nove anni fa si presenta semmai capovolto. L'America di Bush agì unilateralmente, sulla spinta del desiderio di vendicare in qualche modo l'oltraggio sanguinoso dei terroristi a Manhattan, sormontando l'opposizione accanita della Francia. Muhammar Gheddafi sarà, forse, una controfigura di Saddam Hussein, Barack Obama non è una copia conforme di George W. Bush, né Nicolas Sarkozy di Jacques Chirac.
Se dobbiamo cercare un parallelo con altre operazioni militari nel Nord Africa, la tentazione è di risalire fino al 1956, con quella che passò alla storia come la «guerra di Suez» condotta da francesi e britannici contro le obiezioni dell'America di Eisenhower. Paragone che sarebbe però fuorviante: l'Occidente si presenta stavolta più unito. Washington ha finito col dire sì e ha fatto decollare gli aerei lanciato i missili. L'Onu ha concesso, sia pure con qualche limitazione, il proprio patrocinio, la Nato ha fatto altrettanto, senza troppo entusiasmo e l'incoraggiamento più totale è venuto - questa è davvero una primizia storica - da una organizzazione più o meno fantasma come la Unione Africana ma anche da un organo ben più conosciuto quale la Lega Araba, dalla "Conferenza Islamica" (che rappresenta cinquantasei Stati) e soprattutto da uno che esprime i più concreti interessi: il "Consiglio di Cooperazione del Golfo", che comprende l'Arabia Saudita, gli Emirati e in genere i Paesi arabi produttori di petrolio. Sarebbe troppo presumere che la motivi essenzialmente o soprattutto la volontà di aiutare i libici a darsi un regime democratico piuttosto che gli interessi di Paesi concorrenti sul mercato mondiale del greggio. Sul piano numerico, dunque, questa impresa bellica ottiene un appoggio più vasto di qualsiasi altra. Perfino la Cina e la Russia hanno rinunciato a usare il loro diritto di veto al Consiglio di Sicurezza dell'Onu, la prima dopo avere espresso una chiara contrarietà. Fra i Paesi dell'Unione Europea ha prevalso il desiderio di unità, ad esempio nel caso dell'Italia, mentre è emersa coerente e per la prima volta esplicita la "dissidenza" della Germania.
Adesso che i dadi sono tratti, è lecito e urgente sperare che all'iniziativa arrida il successo più rapido e che la «vertenza» si chiuda sormontando i capricci «erratici» del pittoresco colonnello e magari anche le possibili tentazioni occidentali di cercare una vittoria totale attraverso la formula pericolosa della resa incondizionata.
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