Oggi ricorrono i 150 anni dell'Unità. L'avarizia delle celebrazioni e le polemiche arrivate fino a negare l'opportunità dei festeggiamenti dicono chiaramente quanto sia importante il recupero dello spirito unitario. Quanto sta accadendo non è nemmeno paragonabile con l'orgoglio del Centenario. Nel 1961 l'Italia celebrava gli anni del «boom». Un Paese povero, prevalentemente agricolo, distrutto dalla guerra era diventato, in pochi anni, una delle grandi economie del mondo. Sembrava davvero che le luminose promesse del Risorgimento si fossero realizzate. La lira aveva ricevuto l'oscar per la stabilità. Le Olimpiadi di Roma, come quelle di Pechino del 2008, segnavano il posto a tavola di un Paese giovane e desideroso di recuperare spazio nella storia.
Cinquant'anni dopo troviamo un'Italia stanca, un po' invecchiata, molto indebitata, afflitta da una crescita economica perennemente inferiore ai nostri vicini. Immersa nella palude di una crisi mondiale da cui fatica più di altri a tirarsi fuori. L'unico grande evento internazionale in arrivo è l'Expo 2015. Ma non è nemmeno detto che si faccia.
Soprattutto riscopre che a 150 anni dalla proclamazione dell'Unità resiste ancora la spaccatura fra Nord e Sud. Con un taglio netto che non ha eguali in Europa: i 40 milioni di Italiani che vivono nel centro-nord corrono alla stessa velocità della Germania. I venti milioni del sud competono con Portogallo e Grecia. In questi anni siamo stati soprattutto colpiti dal fenomeno più appariscente: il vento del Nord, il leghismo, con il suo secessionismo politico. Non abbiamo prestato, invece, abbastanza attenzione al fenomeno opposto e simmetrico, ma più silenzioso, meno visibile: il secessionismo culturale del Sud. La voglia di bruciare il tricolore non appartiene solo ai più esagitati fra i leghisti: anche dal Sud vengono lanciati cerini accesi.
La leggenda nera sull'Italia unita nasce subito dopo l'unificazione nutrendosi di fatti veri (l'occupazione piemontese, la spietata guerra al brigantaggio, il peggioramento delle condizioni delle campagne, la grande migrazione verso le Americhe) ma letti piattamente, senza spirito critico, senza inserirli in una visione più ampia, nella quale la partita del dare e dell'avere fra le regioni ricche e quelle povere svelerebbe il proprio carattere autentico: quello di un complesso interscambio che ha portato, nel lungo periodo, più vantaggi che svantaggi all'intera comunità nazionale. A causa dell'esasperazione della divisione Nord/Sud degli ultimi vent'anni, l'antica leggenda nera viene ora riproposta con forza.
In realtà a questo Paese per tornare a correre come cinquant'anni fa serve un nuovo Patto per l'Unità.
Un Patto che questo giornale, fondato da un soldato di Garibaldi, ha chiesto fin dalla sua nascita. Un Patto che recuperi le ragioni della convivenza. Come ha ricordato più volte il Governatore Draghi l'Italia ha conosciuto il massimo del suo sviluppo solo quando nord e sud sono riusciti a dialogare e a scambiarsi risorse. Per esempio fra gli anni '60 e '70 quando le regioni meridionali fornirono capitale umano alle fabbriche del nord. Da Milano e Torino risposero impiantando nuovi stabilimenti: Melfi e Pomigliano, il polo chimico di Siracusa e le acciaierie di Taranto.
Allora è da qui che bisogna ripartire. Chiedendo al nord di mettere da parte gli egoismi. Ma soprattutto al Sud di smentire Luca Ricolfi quando parla, con molte ragioni, di «Sacco del nord». Quando ricorda i 50 miliardi trasferimenti da Nord a Sud «che si perdono senza giustificazione». Oppure del tasso di parassitismo della politica e della burocrazia (15% in Lombardia, 45% in Sicilia). Degli otto miliardi spesi annualmente per i falsi invalidi. Del federalismo visto come soluzione della questione meridionale. Dimenticando, però, che il federalismo , storicamente, è servito per raggiungere unioni politiche. Mai per dividere. Ecco perché più che mai e con grande forza in occasione delle celebrazioni dell'Unità dobbiamo gridare tutti insieme «Viva l'Italia».
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