Fuoco incrociato su colombe improbabili. Che probabilmente stanno precipitando sul deserto di Libia ma che potrebbero anche riprendere il loro tormentato volo. Nello spazio di poche ore il "governo rivoluzionario" di Bengasi ha offerto a Muhammar Gheddafi una via d'uscita per qualche verso perfino generosa, poi l'ha ritirata capovolgendone i termini fino a farli somigliare a quelli di una resa incondizionata.
E il dittatore arroccato a Tripoli, quasi contemporaneamente, ha negato l'esistenza di negoziati e ha dichiarato una specie di guerra ad oltranza facendo propri, nella mossa più inattesa da parte di un capo di Stato arabo, soprattutto se dell'ala "radicale", le ragioni e i metodi di Israele. «Quello che stiamo facendo contro i ribelli istigati e teleguidati da Al Qaida è l'equivalente delle strategie antiterroristiche dello Stato ebraico a Gaza». Un argomento destinato come minimo ad approfondire l'isolamento di Gheddafi nella comunità arabo-musulmana. Questo mentre l'Europa e soprattutto gli Stati Uniti sembrano voler stringere i freni e anticipare i tempi di pressioni militari, con Obama che appare trascinato dai "falchi" repubblicani in Congresso.
Il pasticcio deriva anche dal fatto che quello di Bengasi non è un governo né tantomeno un portavoce che parli per tutti. Il Consiglio Nazionale, che dovrebbe essere l'organo più alto della "rivoluzione", è composto di trentuno membri che rappresentano molte ma non tutte le regioni della Libia e tutte le "aree" di risentimento nei confronti del dittatore. L'"offerta" è stata fatta davanti alle telecamere di Al Jazeera da Mustafà Abdel Jalil, ex ministro della Giustizia che si presenta come numero uno nella nomenklatura provvisoria. Egli ha esposto a Gheddafi un ultimatum e insieme una offerta: che lasci il Paese entro 72 ore, non sarà processato e saranno ritirate tutte le accuse contro di lui. Dovrà anche lasciare la Libia dopo avere dato ordine di cessare i bombardamenti sulle «città di frontiera» della guerra civile. Andrà in esilio dove vuole e non sarà processato né perseguito per i suoi crimini.
A correggere questa generosa impostazione sono stati poco dopo due membri del Consiglio insurrezionale, Baraa al-Khatib e Abdel Hafez Ghoga, che hanno negato ogni promessa di immunità e hanno inoltre smentito che il passaggio dei poteri possa avvenire, come era stato ipotizzato, in una «seduta solenne» del Congresso Generale del Popolo, perché ciò equivarrebbe ad attribuire a Gheddafi una legittimità «che egli non possiede». L'inasprimento delle condizioni di resa potrebbe riflettere anche un adeguamento a un atteggiamento più intransigente dei governi esteri. L'America si è unita alla Gran Bretagna e alla Francia nel presentare una mozione al Consiglio di Sicurezza dell'Onu che potrebbe aprire la via a un intervento militare. Una mossa esplicitamente approvata dai Paesi arabi produttori di petrolio, il "Consiglio di Cooperazione del Golfo", che comprende l'Arabia e gli Emirati e, poco dopo, anche dalla Conferenza Islamica, che rappresenta 56 Stati.
La "opzione militare" delle Nazioni Unite è ostacolata ora quasi soltanto dal preannunciato veto della Russia, cui si starebbe unendo la Cina. La vicenda è a corto, invece, di mediatori, anche fra i Paesi europei. Non giovano a Gheddafi sul piano diplomatico le notizie, pur frammentarie e confuse, che illustrano la controffensiva in corso delle forze fedeli al dittatore, che hanno intensificato gli attacchi a due roccaforti degli insorti, in particolare a Ras Lanuf, di cui viene annunciata come imminente la caduta. Anche se le indicazioni di tale svolta sul terreno non si traducono in un rafforzamento del regime in campo diplomatico ma anzi potrebbero, indebolendo gli insorti, spingere l'America e i suoi alleati ad anticipare i tempi di un intervento militare che abbia per scopo salvarli.
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