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Cuffaro all'Ars dopo 10 anni: "Non torno in politica". Miccichè: "Questa sarà sempre casa sua"

Totò Cuffaro (al centro) durante un convegno all'Ars

Alle 11 meno un quarto, molto prima che i grillini arrivassero con i loro manifesti di protesta, Totò Cuffaro è già all’Ars. Il convegno che segna il suo ritorno nei saloni del Parlamento dopo quasi 10 anni è fissato solo per le 11,30 ma all’ingresso del portone c’è già una coda di oltre un centinaio di persone che attende di assistere alla scena del ritorno dell’ex potente.

In coda ci sono ex grandi burocrati – Salvatore Ciriminna, Tommaso Alfredo Liotta – alcuni dirigenti dell’Ars, politici di lungo corso (Riccardo Savona, la famiglia Figuccia).

Cuffaro torna come se ne era andato: vasate per tutti, una parola scambiata con tutti. Si intrattiene a lungo con i cronisti: “Sono qui solo per parlare della vita dei detenuti. Mi hanno accusato di essere un uomo d’onore, e allora ve lo dico con una battuta: da uomo d’onore vi assicuro che non torno in politica. Farò il medico, ma solo in Burundi perché in Italia per esercitare la professione occorre essere iscritti all’albo e l’interdizione che ho non mi consente l’iscrizione”.

Passa Gianfranco Miccichè, e scatta l’abbraccio. Poco dopo sarà lo stesso Miccichè a dare l’avvio al convegno sui figli dei detenuti: “Sono convinto che Totò abbia pagato per tutti. E anche per questo motivo ti dico – ha sottolineato guardando Cuffaro – che questa sarà sempre casa tua”.

Il convegno – ancora in corso – vede anche la presenza del garante dei detenuti, Giovanni Fiandaca, che ha sottolineato l’importanza di rifinanziare le leggi che garantiscono il diritto allo studio dei figli dei detenuti. Cuffaro nell'invito è indicato come relatore "ex detenuto": la traccia della condanna a sette anni e della relativa detenzione per favoreggiamento aggravato alla mafia.

La giornata si annuncia lunga. Fuori dal Parlamento i grillini hanno portato alcuni attivisti per protestare contro la decisione di ammettere l’ingresso di Cuffaro all’Ars. Portano volantini con la scritta “io non sto in silenzio”. Ma dentro il Palazzo, nella sala gialla intitolata a Piersanti Mattarella c’è più gente di quanta è fuori a protestare.

«La vita mi ha fatto pagare un conto meritato, ma ha rimesso in ordine i miei valori. Non posso lamentarmi se non mi hanno fatto uscire dal carcere per assistere ai funerali di mio padre, perché quando lui mi chiamava per il suo compleanno io non ci andavo perché avevo aula o giunta, o altro da fare», ha continuato Cuffaro, raccontando i suoi cinque anni passati a Rebibbia scontando la condanna per favoreggiamento aggravato alla mafia. Sulla locandina all’ingresso della sala, sotto al suo nome non c'è scritto «ex Presidente della Regione», ma «ex detenuto».

«Quando sono entrato in carcere avevo molti pregiudizi su cosa avrei vissuto lì dentro - dice - Ero convinto di trovarmi in una di quelle scene da film in cui mentre fai la doccia c'è qualcuno pronto a sodomizzarti. Nulla di tutto questo, mi è bastato qualche giorno per capire che la realtà lì dentro è profondamente diversa da come la si immagina da fuori. Ci sono persone vere, è una comunità e per come la vedo io il carcere deve servire a rieducare, non a punire».

Cuffaro parla dei problemi di sanità all’interno dei penitenziari ("ho visto persone con il cancro lasciate in cella in attesa per mesi, prima di una cura") dei suicidi ("sono tanti, troppi, all’interno del mondo carcerario e non riguardano solo i detenuti") delle norme chieste da Strasburgo ma "aggirate» in Italia ("le norme per migliorare le condizioni magari ci sono, ma non vengono applicate") e dei suoi anni passati in una cella tre metri per quattro, con altre quattro persone.

«Ogni tanto la notte mi sembra ancora di sentire il rumore delle chiavi sulla porta di ferro, e delle grate che sbattevano», dice. «Appena entri dentro la cella e la porta si chiude, ti rendi conto all’improvviso di tutte le piccole cose che ti sono negate da quel momento in poi, anche cose semplici come potere guardare il cielo "tutto intero di notte". Io per cinque anni il cielo 'tutto interò l’ho potuto vedere solo di giorno, e solo per un’ora», racconta.

«Il carcere ti porta spesso a vergognarti del giudizio che la gente ha di te, e quella vergogna poi si trasforma in rimorso. Ma lo ripeto, ho commesso errori e la vita mi ha fatto pagare il conto. A me lo ha fatto pagare con il carcere, ad altri - dice - in modi molto più dolorosi».

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