ROMA. L'intesa con i Cinquestelle spacca il Pd. Il no di Matteo Renzi a un accordo politico di governo "non è tattica": i "governisti" del Pd se ne convincono in serata, quando non solo i parlamentari vicini all'ex segretario rilanciano l'hashtag #senzadime, per escludere ogni intesa, ma su twitter spunta pure l'appello #RenziTorna, che suona come una sfiducia a Maurizio Martina.
L'apertura del reggente al dialogo con Luigi Di Maio, i cui paletti vengono concordati in una riunione tesissima al Nazareno, non piace ai 'pasdaran'. Renzi si mostra sorpreso dall'atteggiamento di Martina e Franceschini, che lavorano ad allargare il fronte del dialogo. Ed è pronto alla conta nella direzione Dem, probabilmente il 2 maggio, che dovrebbe essere convocata per la prossima settimana. Ma un alto dirigente Pd è pessimista: "Così finisce male, non serve neanche la conta, se non si è uniti si è morti".
Per fare un governo con il M5s servono tutti i Dem, compatti in Parlamento: al Senato basta il no di Renzi e di una manciata di fedelissimi per renderlo impossibile. Oggi anche il ministro Carlo Calenda boccia l'accordo e conferma il suo addio ai Dem se si alleassero con M5ss. Lo fa via twitter rispondendo ad un suo follower che gli chiede: "Anche lei aveva promesso di dimettersi da nuovo iscritto in caso di trattativa con i 5 Stelle. O mi sbaglio?". "In caso di alleanza", è la risposta, "e lo confermo".
Ma i "governisti" Pd non demordono. Giocano fino in fondo la partita, puntando su due fattori per provare ad allargare le truppe: il passare del tempo e la paura del voto. Al Quirinale, così come ai Cinquestelle, viene fatto pervenire il messaggio che per maturare una svolta i Dem hanno bisogno ancora di giorni. La responsabilità verso il paese e il ritorno al voto come rischio reale dopo lo stallo, sono gli argomenti dei dialoganti spesi per convincere i membri della direzione a fare un tentativo serio, senza veti né pregiudiziali.
In mattinata Martina sente "personalità" del partito, dopo aver incontrato Romano Prodi la scorsa settimana, ma soprattutto sindaci e presidenti di Regione. E molti di loro, da Nicola Zingaretti a Sergio Chiamparino, da Leoluca Orlando a Beppe Sala, dichiarano che aprire un dialogo è possibile e necessario.
E' "doveroso", sostiene Franceschini. Sulle formule, aggiunge, si può discutere (ad esempio un appoggio esterno). Ma all'ora di pranzo, quando la delegazione Pd si riunisce al Nazareno prima dell'incontro con Roberto Fico, si arriva allo scontro: da un lato Maurizio Martina, che è per un'apertura seria, dall'altro Andrea Marcucci e Matteo Orfini, che frenano. Anche con la mediazione di Graziano Delrio e Lorenzo Guerini si giunge a un compromesso. Sì all'apertura ma con tre condizioni: lo stop di Di Maio alla Lega, la necessità di far partire il dialogo dai 100 punti del programma Pd e che ogni scelta passi dalla direzione. Lì è Renzi ad avere la maggioranza: la tua linea - dicono i "pasdaran" a Martina - rischia di essere sfiduciata.
Nel colloquio con Fico non ci si avvicina neanche a parlare del tema più spinoso sulla via di un governo: la possibilità per Di Maio di fare il premier. In mattinata i renziani evocano Fico premier, ma solo perché emergano le divisioni interne al M5s.
L'unica chiamata che si dicono pronti ad ascoltare è quella di Mattarella per un esecutivo del presidente "con tutti".
Ma non possono ignorare - sostengono i governisti - la novità: Di Maio ha chiuso a Salvini. Con Martina si schierano i ministri, da Andrea Orlando (sia pur pessimista sui margini di dialogo) a Marianna Madia e Anna Finocchiaro. Su questa linea sarebbero anche gentiloniani come Luigi Zanda, ma Paolo Gentiloni continua a tacere. Ma se la direzione voterà lo stop al tavolo con M5s, non ci sarà nulla da fare. Perciò ora i "governisti", che in un primo momento volevano fare in fretta, puntano sul fattore tempo.
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