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Maxiprocesso, "Il mondo scoprì gli orrori dei boss e io imparai il dovere come valore"

PALERMO. Il maxiprocesso, con 475 imputati, si aprì il 10 febbraio 1986. Il clima era quello delle grandi occasioni. I giornalisti accreditati, italiani e stranieri, erano più di cinquecento. Senza esagerare, posso davvero dire che quel giorno gli occhi del mondo erano puntati su Palermo.
Dietro a quel momento solenne c'era un lavoro intenso, fervido, concitato, durato diversi mesi e reso necessario dalle dimensioni eccezionali, o possiamo dire «mostruose», dell'evento giudiziario, che ci avevano costretti ad affrontare situazioni prima sconosciute.
Si era provveduto alla costruzione sia di un'aula bunker apposita, destinata a ospitare migliaia di persone, sia degli alloggi per i giudici. Quanto sarebbe durata, infatti, la camera di consiglio? Non certo qualche ora o qualche giorno, come accade normalmente. Anche se fossimo riusciti a valutare la posizione di una decina di imputati ogni giorno, non si poteva ipotizzare meno di un mese di clausura. Comunque le scadenze vennero rispettate e il dibattimento iniziò il giorno stabilito.
Ripensando al maxiprocesso mi affiora alla mente un caleidoscopio di facce, di storie, di episodi che hanno dell'incredibile.
Il dato più impressionante, soprattutto per i giudici popolari, fu la crudeltà delle azioni mafiose: le camere della morte, le esecuzioni, gli strangolamenti, i cadaveri sciolti nell'acido. Una interminabile sequenza di atti di cieca e brutale violenza. Più 120 omicidi, tra i 438 reati da giudicare.
Il maxiprocesso fu anche una lotta contro il tempo. Infatti gli avvocati della difesa facevano di tutto per trovare cavilli che rallentassero le operazioni, in modo da ottenere la liberazione degli imputati per scadenza dei termini di carcerazione.
Il dibattimento durò quasi due anni. Le udienze si tenevano dal lunedì al venerdì, mattina e pomeriggio, e il sabato solo di mattina. Per organizzare il lavoro del giorno successivo mi trattenevo nel bunker fino a tarda sera, in modo da poter contare su una certa tranquillità.
Entrammo in camera di consiglio l'11 novembre 1987 e vi rimanemmo trentacinque giorni, completamente isolati dal mondo. La legge proibisce ai giudici impegnati in tale deliberazione di avere contatti con l'esterno, famigliari inclusi, e di usare il telefono.

L'autore di una tale disposizione non poteva però prevedere quanto diventassero assurdi e punitivi i suoi divieti nel caso di un processo di quelle dimensioni. La durata della nostra camera di consiglio è stata senza dubbio la più lunga a memoria d'uomo.
Dopo cinque settimane di camera di consiglio, infliggemmo diciannove ergastoli e migliaia di anni di carcere. Penso che sia stato un processo giusto sia rispetto alle dure pene inflitte, sia in merito alle circa cento assoluzioni, dovute alla mancanza di riscontri delle dichiarazioni dei pentiti. Finalmente era stato dimostrato il feroce potere che Cosa nostra esercitava su un territorio e su un popolo composto da affiliati, favoreggiatori e cointeressati, imponendo regole e sanzioni sulla base di un vero e proprio ordinamento giuridico parallelo a quello dello Stato.
Scrivere la motivazione della sentenza richiese circa otto mesi, durante i quali compilai quasi settemila pagine. Non potevamo permettere che scadessero i termini previsti per l'appello: la conseguenza sarebbe stata la scarcerazione di imputati di altissima pericolosità sociale. Mi sentivo perciò investito di una responsabilità eccezionale. Per tutto quel periodo uscii di casa solo per andare nell'aula bunker a consultare gli atti o a trascrivere la sentenza al computer. Parole come «tempo libero», «relax» e «weekend» vennero completamente abolite dal mio vocabolario: ero finito io agli arresti domiciliari.

Il dovere come valore in sé: questo è il grande insegnamento che da allora ha ispirato la mia vita.

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