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Palma: fra i jihadisti anche italiani convertiti, arruolati nelle moschee

ROMA. La cellula italo-kosovara sgominata a Brescia, è solo l'ultima di una lunga lista. Il fenomeno della radicalizzazione jihadista made in Italy è sempre più allarmante e chiama in causa un'attività di prevenzione che per il magistrato Riccardo Palma, «deve cambiare completamente pelle». «La caccia ai terroristi islamici presenta per servizi e inquirenti numerose difficoltà», chiarisce il viceprocuratore onorario che svolge funzioni di pm presso la Procura della Repubblica. «Serve un attento monitoraggio, la ricerca di informatici e analisti, centralizzazione dell' attività di prevenzione svolta dalle diverse forze di polizia, e una revisione delle modalità di espulsione», annota il magistrato esperto in metodologia d' indagine.

La cellula di Brescia progettava attentati contro il Papa. Il nostro Paese è sempre più a rischio radicalizzazione o di questo passi finiremo per criminalizzare intere comunità?
«In materia si fa troppa filosofia. Ciò che conta non è valutare quanto siano cattivi i terroristi islamici o se esiste un Islam moderato, ma dare vita a un'attività di prevenzione efficace. Le vicende recenti confermano che la comunità kossovara, molto presente su tutto il territorio nazionale, è ad alto rischio di radicalizzazione. Spesso si tratta di muratori che si votano alla causa jihadista perché hanno perso il lavoro nel corso della crisi. Ma per sgominare le cellule italiane che sembrano in sonno, non basta colpire chi dice al telefono che "questo sarà l' ultimo Papa". È fondamentale colpire la rete dei fiancheggiatori».

In quale maniera?
«Nelle moschee e nelle associazioni religiose, fatte salve la maggior parte delle persone che magari sono perfettamente integrate, sono presenti due livelli di Islam pericoloso: soggetti esposti, pronti ad agire in prima persona, e soggetti che pur non volendosi esporre troppo, sono disponibili a dare copertura logistica alla causa rivoluzionaria del jihad. Gli "insospettabili" hanno un ruolo strategico importante perché sono più difficili da intercettare. Fra questi, si annidano anche molti italiani convertiti».

Italiani jihadisti?
«Gli italiani non sono monitorati: quando si convertono, non lo sa nessuno. Spesso i loro "mecenati" li mettono alla prova, magari affidandogli il compito di tenere in casa un ospite jihadista. Si tratta per lo più di studenti ex politicizzati, tra i venti e i trent'anni, provenienti da movimenti extraparlamentari di destra e sinistra, che sono passati dalle frange antagoniste alla conversione all'Islam. Il crollo delle ideologie, li ha messi al servizio di una fede più grande: la causa rivoluzionaria del jihad».

Quanti ce ne potrebbero essere a piede libero?
«Per ovvie ragioni, non posso scendere nei particolari. Ma per comprendere la gravità del fenomeno, basti ricordare la vicenda di Giuliano Ibrahim Delnevo, il genovese di 24 anni morto in Siria nel 2013 e indagato per attività di reclutamento. Era molto attivo su siti e forum jihadisti dove si comunica spesso, ancora oggi, in perfetta lingua italiana. Ne avevo segnalato la potenziale pericolosità un anno e mezzo prima che la sua vicenda finisse sui giornali. A lui erano collegati altri esponenti sospetti. Un suo amico, personaggio di spicco della cellula genovese, italianissimo e convertito all'Islam, è ritenuto persona non pericolosa. Ma attualmente è in Turchia, dove continua tranquillamente a diffondere messaggi ad amici usciti indenni dalla prima indagine che aveva coinvolto Delnevo».

Ha fatto riferimento a siti jihadisti. Sono accessibili?
«Di siti che inneggiano al jihad ce ne sono molti. Vi si può accedere dai più comuni motori di ricerca. Si tratta di forum, blog, gruppi Facebook che fanno propaganda, dove magari non si annidano leader carismatici ma perfetti gregari utili a fornire prezioso aiuto logistico ai potenziali attentatori. Accedere a informazioni che sono sotto gli occhi di tutti, sembrerebbe poco rilevante. Ma è proprio un attento monitoraggio di internet, la chiave per scongiurare molti pericoli».

Servono nuovi fondi per la cyber-sicurezza?
«Nuove risorse sono molto utili. Ma si può fare prevenzione a costo zero anche con un normale personal computer. Il vero punto è che è necessario coordinare i vari sforzi, invece che creare piccole realtà chiuse. Allo stato attuale si occupano di prevenzione la Polizia postale, un settore dei carabinieri del Ros, la Guardia di Finanza, e i servizi che svolgono attività di coordinamento ma non hanno uffici propri. Ad oggi, lo sforzo che potrebbe essere fatto da 50 individui viene fatto spesso da 500 persone che hanno posizioni diverse e sono dislocate nelle diverse Procure. Per questa ragione, è indispensabile che l' attività di prevenzione e monitoraggio sia centralizzata: ne guadagneremmo in efficacia e snellezza».

Molti presunti terroristi, sono stati scarcerati in Italia e oggi sono latitanti. Non c' è niente che la magistratura possa fare, in proposito?
«Se date condizioni impediscono l' arresto, l' alternativa immediata e risolutiva è l' espulsione. Ma vi si ricorre pochissimo perché costa molto: comporta l' uso di aerei, di navi, di scorte. Per questa ragione, occorre incrementare i fondi disponibili».

Esiste il pericolo di infiltrazioni jihadiste sui barconi?
«I pericoli sono concreti. Chi dice che i terroristi usano soltanto gli aerei, si sbaglia di grosso. I barconi sono perfetti per mantenere un basso profilo. E la Sicilia, in particolare, è un' ottima base logistica per i malintenzionati che vogliono farsi passare per disperati. Limitare i rischi però non è semplice. Innanzitutto perché i nostri hot spot non funzionano a dovere in attesa delle decisioni dell' Europa. E poi perché spesso bisogna fare i conti con l' anagrafe di Paesi molto poveri, che compiono errori di trascrizione e rendono tutto molto complicato. Inoltre, i centri di detenzione temporanea, si contano sulle dita di una mano. E le leggi vigenti sull' espulsione sono spesso inefficaci. Spesso i processi si svolgono in assenza dell' imputato, e finiscono con una condanna al pagamento di 5mila euro di ammenda. Processi a imputati che non ci sono, con multe che non verranno mai pagate».

Le mafie hanno un ruolo nel finanziare i terroristi?
«Devo limitarmi a ricordare ciò che ha detto al vostro giornale, il procuratore Lupacchini. La mafia non difende proprio nessuno. L'obiettivo delle mafie, da Nord a Sud, è soltanto quello di fare soldi».

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