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Galloni: «In Italia ripresa troppo debole, il vero rilancio passa dagli investimenti»

«Devono aver fatto confusione con il pianeta gemello della Terra scoperto di recente. Non c'è altra spiegazione. Per quanto governo, Confindustria e banche si premurino di garantire che la ripresa c'è, in Italia non c'è alcun credibile segnale di uscita dalla deflazione. Evidentemente, contano di farsi dare una mano dai nostri nuovi amici extraterrestri». È caustico, l'economista Antonino Galloni, di fronte alla ventilata ripartenza della nostra economia di cui si è fatto un gran parlare in questi giorni. Sindaco effettivo dell'Inps, già consigliere del ministero del Lavoro per le politiche dell'occupazione, il professore sfoggia la sagacia tipica di chi ne ha viste già troppe.

Professore, si dice che il nostro Pil crescerà dello 0,7 per cento già quest'anno e dell'1,6 l'anno prossimo. È arrivata la crescita?

«Si dice sempre così. Si parla di previsioni e non di dati. Sono quattordici anni che sento parlare di crescita. Da quando è cominciata la crisi nel 2001, puntuali ogni semestre, le banche delineano ogni anno grandi riprese che poi vanno a sbattere contro la realtà. Il risultato è che si emettono ogni anno nuovi derivati senza poter rientrare. Il caso che fa scuola è la Grecia. Ma anche l'Italia si difende bene da questo punto di vista: si dice che c'è la ripresa, ma poi si continuano a emettere derivati e il debito pubblico aumenta. Strano».

Si continua a inseguire un miraggio dunque?

«Sono cose che fanno parte dell'immaginario dell'economia. Messaggi di ordine psicologico. Se importanti attori del nostro mercato continuano a ripetere che ci sarà ripresa, ci sarà qualcuno alla canna del gas che si sentirà confortato. Ad esempio le imprese che sono sull'orlo del fallimento: magari tenteranno di resistere nella speranza di incrementare le vendite l'anno prossimo. E poi, se ci arrivano, l'anno prossimo ancora».

Qual è la reale condizione del nostro Paese?

«La realtà dice che l'Italia ha perso cinque punti di Pil negli ultimi dieci anni e che il nostro Paese ha vissuto nello stesso periodo un incremento della popolazione del cinque per cento. Il Pil pro capite è diminuito quindi del dieci per cento. Come si fa a parlare di ripresa in una situazione simile? Evidentemente è stata mandata una sonda su Plutone. Forse lassù gli extraterresti hanno garantito che ci daranno una mano. Mi sembra un'ipotesi più ragionevole di quello che raccontano. Non trova?».

Si prevede che i consumi, ora fermi al palo, dovrebbero beneficiare della risalita del reddito disponibile reale. Fantascienza anche questa?

«È già un miracolo che i consumi siano fermi al palo, visto che c'è stato un calo del reddito disponibile del dieci per cento! Sarebbero dovuti scendere del dieci per cento, in una situazione disastrosa come questa. Non vediamo del tutto la portata della catastrofe perché gli italiani attingono ai risparmi, fanno un po' di nero, si danno ad attività sommerse, illecite o illegali. È solo per questa ragione che l'economia italiana non sembra essere colata a picco più di così».

Il governo ha comunicato che fatturato e ordini accelerano, e l'export ha ripreso a marciare. Neppure questo un timido segnale di ripresa?

«La ripresa è un'altra cosa. Qui l'unica nota lieta è che la crisi non continua a peggiorare. C'è una differenza enorme tra i due concetti. Un conto è parlare di ripresa, un altro è prendere atto che la recessione ha smesso di spingerci ancora più a fondo. È di questo che si parla. C'è poco da festeggiare».

Quali sono gli elementi che mancano per una ripresa effettiva e non solamente auspicata?

«In una situazione di recessione come la nostra, la possibilità di prospettare la ripresa richiede un ingrediente magico che risponde al nome di investimenti. È sulla base di investimenti seri, che possiamo ipotizzare un cambiamento. E poi se non c'è una previsione di vendite e l'economia stagna, di che ripresa cianciamo? Siamo seri».

Il governo ha promesso di abbassare le tasse nei prossimi tre anni. Le coperture ci sono?

«Abbassare le tasse è senz'altro possibile. Bisogna vedere a fronte di che cosa. Se riduco la pressione fiscale e poi aumento la spesa, sto dando vita a una manovra keynesiana che darà sicuramente benefici. Se io riduco le tasse a fronte di una riduzione della spesa pubblica, do vita a un'operazione liberista che produce una situazione peggiore di quella che viviamo adesso».

La spending review sembra già avviata. Meno tasse uguale meno servizi?

«Ridurre le tasse a tutti i lavoratori dipendenti, e quelli che svolgono lavoro autonomo, è chiaramente auspicabile. Ma se in cambio di questo avremo meno servizi pubblici, meno trasporti, meno sanità e meno scuola pubblica, è ovvio che i soldi in più dovremo spenderli per pagarci le cose più importanti. Non proprio un grande affare».

Che tipo di Italia verrebbe fuori con 25 miliardi di tagli?

«Per famiglie dall'alto tenore di vita, il taglio delle tasse può comportare più vantaggi che svantaggi. A rimetterci sono soprattutto i cittadini comuni, in uno schema del genere. Avrebbero meno servizi, e gli occorrerebbero più soldi per procurarseli privatamente».

Che tipo di schema è?

«Uno schema politico che reputa il taglio delle tasse possibile soltanto attraverso il taglio della spesa pubblica. Uno schema fallimentare, religiosamente seguito in Europa, che produce un inevitabile calo della domanda interna, e un peggioramento costante delle condizioni di vita della maggior parte dei cittadini».

Perché si insiste allora?

«Si tratta di scelte politiche intraprese legittimamente grazie al mandato degli elettori. Che altrettanto legittimamente, quando sarà chiaro il fallimento e il governo dovrà andare a casa, voteranno per qualcun altro alle prossime elezioni».

Esiste una ricetta alternativa per risollevare il Paese?

«È necessario, o a livello europeo o a livello nazionale, riprendere a fare investimenti sulla scuola, sul territorio, sulla sanità, sui trasporti, sulle infrastrutture che sono necessarie per avere un Paese civile e con meno disoccupati. Altro che tagli».

E qui scatta il tipico refrain: «ce lo chiede l'Europa».

«Questa storia dei tagli la sentiamo da 25 anni. Che cosa ha prodotto? Un Paese dove un'intera generazione è stata estromessa dal mondo del lavoro, persone di 35 o 40 anni che non hanno ancora mai lavorato e non hanno versato un contributo. Qual è il loro futuro? È ora che ci si assuma la responsabilità storica di un fallimento che non può più essere sottaciuto».

Come si esce dall'impasse?

«Se l'Europa è sorda a questo discorso, la soluzione è semplice: bisogna uscire dalla gabbia dell'euro e tornare gradualmente a una valuta nazionale. Occorrerebbe intanto una valuta parallela che consentirebbe investimenti a difesa del territorio e della occupazione. Poi, un passo dopo l'altro, potremmo finalmente tirarci fuori da questo incubo»

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