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De Lucia: «La mafia di oggi a Roma e in Sicilia usa le stesse armi per avere potere»

Dottore De Lucia, se vogliamo spiegare la mafia di oggi a chi non ne sa niente, non possiamo non cominciare da "Mafia Capitale"...
«... che è una forma di criminalità organizzata capace di usare gli strumenti tipici della mafia e come tale è perseguita come Cosa nostra. Ha il controllo del territorio, la forza intimidatrice, la struttura armata, il rapporto molto forte con i politici. Elementi, questi, che tradizionalmente hanno sempre caratterizzato Cosa nostra, la cui struttura è monolitica e verticistica. Diciamo che si tratta di una forma evolutiva di Cosa nostra».
Maurizio de Lucia, 54 anni, dal suo osservatorio privilegiato (è pm della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo) si misura ogni giorno con indagini che riguardano non solo la mafia ma le mafie del nostro Paese. Triestino di nascita, vissuto a Napoli ma palermitano d' adozione, con la Direzione distrettuale antimafia del capoluogo ha affrontato le stagioni esaltanti delle grandi indagini sulla mafia militare e sui rapporti con la politica. Era nel pool di pm che chiesero e ottennero la condanna di Totò Cuffaro.
Con lui il coordinatore, Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino, oggi capo e aggiunto alla Procura di Roma. I pm di «Mafia Capitale».
La Sicilia dunque esporta modelli criminali. E nella Capitale si lucra pure sull'assistenza ai migranti.
«Le organizzazioni di tipo mafioso si infiltrano dove è più facile e dove corrono i rischi minori. E preferiscono i settori in cui la spesa pubblica è forte ed è in un certo senso "obbligata"».

Ma tornando alla mafia siciliana, dura e pura, nuda e cruda?
«Va vista da due punti di vista: quello storico e quello attuale, perché non si comprende com' è oggi se non si guarda al passato. Oggi è fortemente indebolita da vent' anni di repressione delle forze di polizia e soprattutto della magistratura, che, diversamente dal passato, ha inflitto una serie di condanne a vita o a pene più o meno pesanti, se non pesantissime».

Indebolita, dunque sconfitta?
«Assolutamente no. Né si può parlare di quella che è stata definita la "camorrizzazione" dell' organizzazione, una sorta di polverizzazione, che, in Campania e a Napoli, porta a parlare di più "camorre" e non dica morra, tante associazioni che si alleano osi combattono fra di loro, in una logica di totale autonomia l' una dall' altra».
In Sicilia, a Palermo, questo "rischio", chiamiamolo così, non si corre.
«Affatto. Nell' Isola il carattere di unitarietà dell' organizzazione è dimostrato da fatti molto semplici: quando c' è l' arresto di un capo si sa già chi gli succederà. È questa la manifestazione di una forza che consente a Cosa nostra di vivere quando è forte e di sopravvivere quando è debole».
Il carattere monolitico del passato, cioè, rimane intatto ed è fondamentale, in attesa di tempi migliori per i boss.
«La struttura "istituzionale" tiene insieme l' associazione anche in assenza di un vertice unico, come avviene in questo momento in cui Cosa nostra è scompaginata da arresti e indagini. L' organizzazione non può programmare scelte strategiche particolarmente significative, ma questo non vuol dire che ciascun associato non si riconosca in una sola struttura».
Perché il territorio continua a sua volta a "riconoscere" il "governo" criminale?
«I più recenti collaboratori di giustizia raccontano che la pressione estorsiva è assolutamente massiccia. Cosa che dimostra che l' organizzazione è fortemente radicata e soprattutto riconosciuta dalle vittime. Che potrebbero ribellarsi, grazie alla reazione dello Stato, ma non lo fanno in maniera compatta e massiccia: perché hanno subito per 150 anni Cosa nostra e sono abituati più di noi a pensare che la mafia può tornare forte in qualsiasi momento e può fargliela pagare».

L' allentamento della morsa è solo illusorio, dunque?
«Rispetto al territorio sì, che lo è. La gente che subisce si guarda indietro, vede la pressione esercitata in passato e trova quella attuale analoga, se non più forte».

Se la mafia non ha un vertice forte e unico, capace di compiere scelte strategiche importanti, sial lontana il rischio di attentati?
«La storia d' Italia è piena di episodi di segno contrario. Nessuno cioè può escludere la possibilità di una reazione fuori controllo di schegge impazzite dell' organizzazione. Per questo il livello di sicurezza di chi è impegnato in prima linea nel contrasto alla mafia è e deve rimanere altissimo».

I grandi mafiosi, specie i latitanti, godono di appoggi di piccolo, medio o grande calibro?
«La latitanza di Bernardo Provenzano era appoggiata da personaggi di apparentemente medio calibro, ma la rete delle Talpe che affrontammo nel processo Cuffaro non comprendeva solo marescialli ma anche esponenti politici, imprenditori, funzionari della pubblica amministrazione». I boss sanno cioè come "mettersi nelle mani" chi per loro conta.
«Cosa nostra è maestra nel tessere relazioni con parti importanti del tessuto sociale e politico. E in questa fase di indebolimento oggettivo si può giustificare ancora di meno il politico che ancora abbia contatti con questi ambienti. Pensi che nel 2006 fu trovato un pizzino di Matteo Messina Denaro, che scriveva a Provenzano la famosa frase "qui stanno arrestando pure le sedie"...».

Ora o mai più, contro la mafia?
«L' organizzazione non è più in grado di offrire lo stesso potenziale di consensi, al politico che le si avvicini.
Ma il vero problema è che la pubblica amministrazione non sa come porre degli argini. L'esempio del bar dell' ospedale Civico è lampante: lì era tutto fuori norma, ma l'amministrazione se n' è resa conto solo dopo anni e grazie all' indagine antimafia. Dolosa o colposa che sia, anche questa è commistione».

Verità e giustizia sulle stragi: ora, in futuro o mai?
«La ricerca della verità fatta attraverso i processi porta a scoprire verità processuali, che possono non essere la verità assoluta, reale. Ma nei processi si deve ricostruire la responsabilità penale di autori di reati. La Procura di Caltanissetta ha fatto un lavoro di assoluta importanza, smantellando costruzioni che si sonori velate sbagliate e istruendo processi che sono in corso. Sulle stragi sono in corso indagini, alcune dei pm nisseni, competenti a svolgerle. Dobbiamo augurarci che il loro sforzo sia coronato da successo».

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