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«Majorana morì nel ’39 in Sicilia, non andò mai in Venezuela»

Stefano Roncoroni, discendente del fisico siciliano: «La famiglia ha sempre saputo tutto, si rifugiò in un convento. Era malato. Si disse che era omosessuale»

La vicenda della scomparsa di Ettore Majorana ha sviluppi ciclici che si candidano a illuminarne i tanti lati oscuri col sorprendente risultato di non riuscire a farla uscire dal buio. Adesso salta fuori un testimone che assicura che nel 1981 il genio catanese era a Roma dove viveva da clochard. «Ettore Majorana è morto nel 1939, probabilmente in Sicilia, ucciso da una malattia. Questo lo sa la famiglia, lo sapevano gli investigatori del tempo, l'una e gli altri impegnati a stendere un velo su tutta la storia». Stefano Roncoroni, 73 anni, regista e autore televisivo ma, soprattutto, quarto cugino dello scienziato per parte di madre, legge la vicenda con un taglio originale: Majorana era una figura imbarazzante. Lo era per la famiglia, lo era per il regime, lo era anche, in parte, per la comunità scientifica.

Majorana era uno scienziato di successo già da giovane. Perchè poteva essere considerato «imbarazzante»?
«Bisogna innanzitutto considerare che la grande famiglia dei Majorana apparteneva a un'altissima sfera di notabilato istituzionale e accademico. Zii di Ettore erano stati ministri, alti burocrati, docenti universitari, rettori. Una famiglia attraversata da una cultura benpensante e conformista. Ettore era tutto il contrario. Aveva uno stile di vita che non era molto compatibile con le relazioni sociali. E meno che mai con la cultura del regime fascista. Per una famiglia come la sua era certamente una figura ingombrante e, il suo successo in campo scientifico evitò che il figlio ”strano” venisse quasi nascosto, non venisse cooptato nelle paludate attività pubbliche di cotanta geniade».
Majorana era certamente un genio. Ma perché “strano”?
«Lo studio dei suoi comportamenti sociali ha portato a una diagnosi, seppur postuma e quindi da prendere con la dovuta prudenza, di sindrome di Asperger. Si tratta di una patologia del comportamento che, per semplificare, potremmo avvicinare all'autismo. Questi comportamenti “pesavano” sia all'interno della famiglia che nell'ambiente di lavoro. Ettore era tanto impacciato nelle relazioni sociali e nella cura fisica di se stesso, quanto fortemente convinto di possedere una sorta di certezza della verità scientifica. Tutto questo quasi “costringeva” il mondo in cui viveva a non poterlo né ignorare né nasconderlo. Ecco perché dopo la sua scomparsa si innescò una sorta di congiura del silenzio».

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