Ci sono zone della Sicilia che sembrano sorelle gemelle di quelle liguri dove nei giorni scorsi le alluvioni hanno provocato morti e danni enormi. L'Isola, nel quadro Nazionale, rappresenta una delle Regioni dove più alto è il dissesto idrogeologico all'origine delle tragiche conseguenze che derivano ogni volta che si verificano fenomeni estremi.
La protezione Civile Regionale ha individuato 8500 «nodi idraulici» che sono le intersezioni delle vie di smaltimento delle acque piovane con opere civili: strade, sottopassi, interi centri abitati. Il Pai (Piano di Aspetto Idrogeologico) classifica in Sicilia 22 mila aree a rischio idrogeologico. E se in Italia è a rischio l'82% dei comuni, in Sicilia questa percentuale rasenta quasi il 100%. Tra il 2000 ed il 2014 sono stati registrati 78 eventi importanti con 58 vittime e danni per 3 miliardi e mezzo di euro. Per eventi importanti si intendono soprattutto alluvioni e frane. L'emergenza dei Nebrodi del 2010 costrinse all'evacuazione 1400 abitanti di San Fratello. In quell'occasione furono coinvolti oltre 30 Comuni e censite oltre 2000 frane.
Michele Orifici fa parte del Consiglio Nazionale dei Geologi nel quale è Coordinatore della Commissione Protezione Civile. «In Sicilia – dice – piove male nel senso che obiettivamente è un po' cambiata la quantità delle precipitazioni e la sua distribuzione nel tempo. Ma imputare tutto alle presunte anomalie meteo sarebbe un errore. Il problema non è il tempo che fa, il problema siamo noi, quello che facciamo ma, soprattutto, quello che non facciamo».
Cominciamo dalla morfologia del territorio. È sufficiente imputare a questa conformazione la principale responsabilità di quello che succede?
«Certamente no. Non c'è dubbio che, per esempio, la morfologia dei Nebrodi e dei Peloritani dal punto di vista geologico è molto simile alla zona di Genova. Siamo in presenza di bacini idrografici caratterizzati da versanti ripidi lungo cui le acque defluiscono velocemente verso i fondovalle spesso impermeabilizzati a causa della considerevole urbanizzazione frutto dell'opera dell'uomo. Si tratta spesso di fenomeni sociali di grande rilievo. Nella zona del Messinese, per esempio, negli ultimi 50 anni si è assistito allo spopolamento di decine di Comuni montani. Nella classifica regionale dello spopolamento, dei primi 30 Comuni siciliani, 21 sono in provincia di Messina con percentuali che vanno dal 42 al 73%. Di converso c'è stato un popolamento dei Comuni costieri che ha superato anche il 200%. Questo ha delle conseguenze importanti perché i territori montani da cui nasce il problema, per via della conseguente esposizione agli incendi e al dissesto, vengono di fatto abbandonati a favore dei territori costieri che invece vengono urbanizzati e queste due circostanze messe insieme favoriscono frane e alluvioni».
In una situazione del genere quali devono essere le strategie per una indispensabile prevenzione?
«La prima cosa da fare è quella di liberare i torrenti ostruiti. La formazione di sbarramenti provocate da detriti o foglie o arbusti può causare un'alterazione del flusso e quindi le esondazioni. Bisognerebbe investire molto sul piano di sviluppo rurale in modo che attraverso il rilancio dell’agricoltura e il ritorno del contadino nelle campagne si abbia un costante controllo delle acque di deflusso. Bisogna che i Comuni redigano e diano piena attuazione ai piani di protezione civile. Il Piano consente di individuare i settori del territorio esposti a rischio sismico e idrogeologico e di conseguenza permette di pianificare tutte le azioni da mettere in atto per salvaguardare la popolazione al verificarsi di un’emergenza. Un piano funziona quando ogni persona è consapevole dei rischi incombenti sui luoghi in cui vive e sa cosa fare al verificarsi di una emergenza. Sistemi di allertamento strumentale installati per il monitoraggio dei settori a rischio oggi possono consentire in tempo reale di avvisare la popolazione della possibile imminente emergenza. Ci sono per esempio dei sensori che opportunamente installati possono segnalare un aumento del livello del deflusso delle acque e fare scattare segnali d'allarme come semafori, sbarre tipo quelle dei passaggi a livello o addirittura inviare sms con l'allarme. Questi sistemi sono attivi in Italia in appena qualche decina di comuni virtuosi. Un dato sconfortante è quello che nel territorio nazionale il 70% delle amministrazioni è dotato di Piani di Protezione Civile la maggior parte dei quali però sono chiusi nei cassetti e pertanto assolutamente inutili».
Come può essere strutturata una efficiente rete di monitoraggio di un territorio così vulnerabile come quello Italiano e, particolarmente, quello siciliano?
«Noi siamo un ordine professionale. È ovvio dunque che guardiamo ad una valutazione del ruolo dei geologi nel contesto del contrasto al dissesto idrogeologico. La nostra proposta più importante, sotto questo aspetto, è quella del geologo di zona. Ci lavoriamo da alcuni anni e, per come la vediamo noi, questa figura dovrebbe supportare i comuni, quasi ovunque sprovvisti della figura di geologo, nel monitoraggio del territorio per individuare tempestivamente le criticità nonchè nella sua gestione ragionata. Perché è chiaro che il territorio evolve e questo è normale. Lo è meno quello che gli si fa. Un'altra strategia importante è quella dei presidi territoriali idrogeologici. Quando si verificò la tragedia di Giampilieri la Protezione Civile regionale chiese all'Ordine dei geologi un supporto nella ricognizione del gravissimo evento. Il supporto risultò molto utile al punto che fu possibile firmare una convenzione con la Regione che in particolare in occasione degli eventi di Saponara funzionò dando buoni frutti. Questo importante strumento di prevenzione è stato via via attuato anche in altre regioni. In Sicilia questo processo di collaborazione al momento si è arrestato perché la convenzione è scaduta. È importante agire al più presto affinché questo come altri strumenti di prevenzione possano contribuire a contenere il livello di rischio di un territorio che puntualmente si traduce in un costo altissimo in termini di vite umane e di danni. Siamo un paese ”difficile” ma ciò non vuol dire che incuria e cattiva amministrazione debbano impedire di studiare ed attuare le strategie più opportune per tenere la situazione sotto controllo».
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