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Mediaset, i giudici: "Frode aggravata da ruolo politico del Cavaliere"

MILANO. Il ruolo pubblico assunto da Silvio Berlusconi "come uomo politico" rende più grave "la valutazione della sua condotta" di frode fiscale e pertanto, anche per la durata della pena accessoria, non merita il "minimo della pena". Sono questi in sintesi i motivi per cui dieci giorni fa i giudici di Milano hanno disposto due anni di interdizione dai pubblici uffici per il Cavaliere, l'"ideatore, organizzatore" di un sistema creato "anche per poter più facilmente occultare l'evasione"  e già condannato definitivamente a quattro anni di carcere per il caso Mediaset.

Nelle dieci pagine dei motivi della sentenza, Maria Rosaria Mandrioli, il giudice estensore della terza Corte d'Appello, spiegando le ragioni che hanno portato a rideterminare, al ribasso, i cinque anni di pena accessoria inflitti in primo e secondo grado all'ex premier, ha scritto che il collegio, presieduto da Arturo Soprano, ha seguito  "lo stesso criterio" utlizzato dalla Cassazione quando, lo scorso primo agosto, ha reso definitiva la pena principale: per l'"oggettiva gravità dei fatti contestati" ha ridotto di un terzo il massimo previsto dalla legge che in questo caso è tre anni.

Ma al di là dei conti, nelle motivazioni, oltre a una serie di considerazioni in linea con quelle fatte da chi in precedenza ha giudicato il leader del Pdl, ci sono delucidazioni non da poco. Delucidazioni messe nero su bianco per chiarire il perché dell'inamissibilità e dell'irrilevanza delle due eccezioni di incostituzionalità, una sulla legge Severino e l'altra sulle norma che disciplina i reati in materia di imposte sui redditi, sollevate in aula dalla difesa il 19 ottobre scorso, durante il processo: da un lato è stato sottolineato come la legge sulla decadenza e sulla incandidabilità "ha un ambito di applicazione distinto, ben diverso e certamente non sovrapponibile con quello" trattato ed è riservato non tanto all'"Autorità Giudiziaria" bensì all'"Autorità Amministrativa".

Dall'altro è stato evidenziato come, nonostante le assicurazioni in senso contrario dei suoi legali, né Berlusconi né Mediaset abbiano ancora provveduto a saldare il debito con l'Agenzia delle Entrate, cosa che, se in genere avviene prima dell'apertura del dibattimento, consente all'imputato una riduzione della pena e l'esclusione della pena accessoria.

A dimostrazione di come non ci sia "prova" dell'asserito recente versamento di circa 11 milioni di euro, è stato infatti precisato come i difensori  si siano limitati "a produrre in causa una mera 'proposta di adesione' alla 'Conciliazione extragiudiziale' formulata solo in data 11/9/2013, con
previsione di rateizzazione dei pagamenti a partire dal 22/10/2013 con scadenza al 22/7/2016". Eppure, osserva il magistrato, "nulla precludeva" all'ex capo del Governo "ancorché estraneo alla formale gestione della società, di attivarsi personalmente per estinguere il debito tributario in questione, gravante su Mediaset spa".

Quanto alla vicenda al centro del processo, la Corte ha sposato la ricostruzione accertata con le sentenze di primo e secondo grado e passata al vaglio della Suprema Corte: il Cavaliere, con "particolare intensità del dolo" e "perseveranza",  fin dalla seconda metà degli anni '80, quando era presidente di Fininvest, ha "ideato e organizzato" un sistema che si è tradotto in "una complessa attività finalizzata a realizzare un'imponente evasione fiscale" - 7,3 milioni per il 2002 e il 2003 -  tramite la compravendita dei diritti tv.  Ora, anche per quel che riguarda i due anni di interdizione dai pubblici uffici, è atteso il riscorso in Cassazione. Dopo di che la parola fine.

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