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Obama e una crisi da affrontare prima del voto

Il «destino» ha avuto un piccolo riguardo per Barack Obama: ha aspettato il giorno dopo il suo cinquantesimo compleanno per scagliargli addosso, se non una folgore, almeno un grosso sasso. Il momento della caduta della spada di Damocle è stato determinato, accelerato, dalla delusione generale per i risultati delle trattative febbrili, nervose, ossessive fra Casa Bianca e Congresso per stornare un'altra, peggiore catastrofe, da parte anche degli stessi che l'avevano fabbricata. Il default dell'America era un appuntamento in gran parte artificiale e la «soluzione» ne ha risentito.
Il declassamento dell'America è avvenuto per mano di un ente «privato», ideologicamente o almeno psicologicamente non troppo lontano da chi aveva spinto la crisi sull'orlo. A parte la data, il resto era prevedibile. I rating di istituti privati sono da molti anni uno strumento della lotta politica, denigrati oppure esaltati come Verità Supreme a seconda delle convenienze, anche elettorali, delle parti. E gli Stati Uniti stanno entrando, fra l'altro, in una fase preelettorale, che di rado porta meditate saggezze. Così un quotidiano di fama come la Washington Post ha aperto la sua prima pagina, poche ore dopo la «sentenza», con un esame delle conseguenze per Obama nei sondaggi venturi. Altri, i più, sono andati o andranno al sodo. Si chiedono che cosa significhi, che conseguenze avrà quel discusso «verdetto» non sulle fortune di questo o quel candidato ma sul futuro del Paese. E di conseguenza, visto che il Paese in questione sono gli Stati Uniti, su quello del pianeta.
C'è chi bada al pratico, come la Cina, massimo creditore della Superpotenza di cui si mette in dubbio ora la solvibilità. C'è chi cerca di trarne lezioni per affrontare «imboscate» analoghe, che hanno già colpito diversi Paesi europei e su altri incombono. E c'è chi guarda più lontano e più in grande, al futuro, immediato e no, dell'America e di tutti gli equilibri mondiali che su di essa si basano da ben più ormai di mezzo secolo. Ne è cominciato il declino? Non è la prima volta che questo interrogativo si affaccia, ma mai prima con tale ansiosa urgenza. Era successo, l'ultima volta, un terzo di secolo fa, quando un ciclo glorioso parve a molti, in casa e all'estero, sul punto di trasformarsi in viale del tramonto. L'avventura in Vietnam era finita come sappiamo, il Medio Oriente aveva generato la stretta energetica, l'inflazione galoppava su entrambe le sponde dell'Atlantico e un presidente Usa, Jimmy Carter, denunciava il «malessere» che si era impadronito della nazione. Poi invece arrivò un candidato che sosteneva che il bello doveva ancora cominciare, che il miglior passato era il futuro, che «It is morning again in America», è tornato il mattino in America. Ronald Reagan promise, fu eletto, mantenne. Durante i suoi otto anni si preparò anzi quel che nessuno si aspettava: il crollo dell'Unione Sovietica, la fine della Guerra Fredda, la scomparsa del comunismo come alternativa. E l'America rimase sola più che mai e un poco ebbra dei suoi trionfi. Un senso di invincibilità si diffuse in molti settori politici, ma anche in aree intellettuali come quella dei «neo-conservatori». E venne la stagione degli eccessi, facilitata e anzi sospinta dalle tentazioni senza precedenti offerte su un piano dallo sviluppo mozzafiato delle tecnologie che ancora vanno sotto il nome di Internet e su un altro dalla principale conseguenza politica, economica, umana della fine della divisione del pianeta in due mondi, della «globalizzazione».
Tutte le frontiere parvero crollare o sparire. Tutto divenne possibile, compreso il dispiegamento senza più ostacoli nelle ambizioni e nelle speculazioni più colossali e al tempo stesso più brevi e dunque effimere. Al decennio del «malessere» seguì il ventennio del Greed, dell'avidità senza confini e «a breve», un po' ovunque ma soprattutto in America. Una Hybris che debordò anche - negli anni di George W. Bush - in avventure militari fuori misura fino alle gravissime e sanguinose sfide di un terrorismo senza pietà e senza patria. Il flagello del debito pubblico Usa si sfrenò in quegli anni. Bush aveva ereditato da Clinton un bilancio federale in attivo e triplicò le spese. Obama ha ereditato quel debito e non è stato capace di frenarlo, combattuto com'era ed è fra spinte contraddittorie, le «economie» e il rilancio dell'Economia. Questi i conti che egli e il mondo si trovano sul tavolo, siano o no esatte le cifre di Standard & Poor's. Poor come «povero». Nomina sunt omina.

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