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Riforma Gelmini, primo passo verso una nuova università

La legge è stata approvata, ma deve essere ancora riempita di contenuti fondamentali. E' una prima fiammella coerente con un riassetto innovatore liberale fondato su meritocrazia, responsabilità, valutazione e premialità

Il futuro è lo scrigno degli Dei e solo da loro può essere penetrato, affermava Seneca. Tuttavia, con occhio lungo, bisogna percepire i segni del mondo in divenire e attuare i provvedimenti che possano permettere al nostro Paese di uscire dalla crisi ed entrare nella modernità. Il succedersi ordinato nel lavoro delle generazioni si è inceppato. La sinecura del lavoro fisso e garantito dallo Stato diviene sfuggente. L'Italia, se vuole crescere, ha bisogno di un sistema di alta formazione e ricerca vigoroso. Dagli atenei i cittadini tutti devono pretendere l'eccellenza, perché si tratta di un bene della collettività, pagato dall'intera comunità. Pedina essenziale per non svendere aspettative. Pertanto il ritornare sul tema dell'università non è l'idea ripetitiva di un professore.
La riforma Gelmini è ormai legge, ma deve essere ancora riempita di contenuti fondamentali, attraverso un centinaio di decreti delegati e norme attuative. Un processo appena iniziato. Per alcuni si tratta dell'iniezione letale a un organismo agonizzante, per altri di un buon tonico che rivitalizza l'accademia.
Per noi la legge rappresenta una prima fiammella coerente con un riassetto innovatore liberale, fondato su: meritocrazia, responsabilità, valutazione e premialità. Diversi analisti temono che, via via nel tempo, questi germogli si atrofizzeranno e di liberale rimarrà ben poco.  I meccanismi per far competere il sistema degli atenei italiani in campo internazionale sono assai semplici. Vere e proprie tavole di rigore. Confronto al rialzo su produttività scientifica e qualità didattica. Accurati metodi di selezione. Accantonare la prassi rovinosa dell'assorbimento in ruolo per tutti. Riconoscimenti in termini di prestigio e risorse ai migliori. Rivisitazione di obesi e spesso inutili organismi assembleari. Nuove metodologie informatiche e telematiche. Assicurare la transizione scuola-lavoro. Sanzioni, sino ad oggi, quasi mai applicate al personale improduttivo. Trasparenza e responsabilità amministrative. In ogni caso, comunque, servono robuste risorse - sia pubbliche che private - per reclutamento, investimenti in ricerca scientifica, premialità ai migliori, servizi e borse agli studenti.
Sia detto con scabra franchezza. L'attività scientifica e di alta formazione deve essere aristocratica, per qualità di intelligenze e severità di studi. Non tutti gli atenei possono pretendere uguali diritti, quando non garantiscono servizi intellettuali e strutturali adeguati alla società. Gli studi universitari non sono un ammortizzatore sociale.
La recente legge di riforma non ha voluto o potuto osare alcuni forti avanzamenti. Un'idea apparentemente provocatoria. Serve una rivoluzione liberale, ricordando Piero Gobetti e Isaiah Berlin. Atenei che scelgono liberamente obiettivi strategici, programmi e docenti; ricerca di accountability, cioè obblighi morali verso la società; eliminazione dell'autoreferenzialità. Per chiarezza dei lettori portiamo l'esempio di due nodi appena sfiorati: concorsi e valore legale del titolo di studio.
Concorsi. Chi ha partecipato - da commissario o candidato - sa quanto sia difficile rompere, ma anche soltanto scheggiare, le cordate dei gruppi disciplinari egemoni. A prescindere da eventuali sorteggi o meno. La nuova procedura è certamente un passo avanti - rispetto alle dequalificanti valutazioni comparative locali - ma non migliorerà di molto i risultati.
Il sistema che trova applicazione negli atenei di gran parte del mondo occidentale è la chiamata diretta. Una cooptazione cristallina e responsabile, con recupero di senso etico. Chi ha chiamato e sbaglia, portando in cattedra professori scadenti o asini, paga. Qualità zero, risorse zero.
Nel contesto di questo riordino, molti ritengono che obiettivo conseguente dovrebbe essere l'abolizione del valore legale del titolo di studio. Idea già proposta negli anni ’20 del secolo scorso da uno statista e professore come Luigi Einaudi, e oggi sostenuta da personalità del calibro di Mario Monti, Angelo Panebianco, Roberto Perotti.
L'idea non è da respingere a priori. È un'ipotesi suggestiva perché significa che le lauree non sono tutte identiche davanti alla legge. Si potrebbe realizzare un libero confronto di saperi e competenze, senza vincoli formali; uno sprone alle università con un miglioramento della qualità degli studi; effetti virtuosi a cascata, con famiglie esigenti che pretendono docenti capaci. Gli atenei - spogliati dell'equiparazione de iure - dovrebbero selezionare i professori migliori, sottoponendosi a verifiche per competere e sopravvivere.
Le università non sarebbero più catene di montaggio per acquisire il «pezzo di carta». Ho imparato - scrisse Einaudi nel 1947 - che questi certificati valgono meno della carta su cui sono scritti. Le spendibilità nel mondo del lavoro può riservare amare sorprese, producendo «il sentimento morale della disoccupazione». Siamo consapevoli dei molteplici e complessi problemi di applicazione pratica. Infatti, ironizza Umberto Eco, ne parleremo forse tra vent'anni.
Il movimento degli studenti prepara nuovamente assemblee, volantinaggi, manifestazioni in piazza. Bisogna certamente ascoltarli. Dibattiti e dispareri sono il sale della democrazia. Il tema del dialogo è fondamentale. I ragazzi sono pervasi da profondo malessere, impauriti nei confronti del futuro. È il disagio di intere generazioni. Il prezzo della globalizzazione. Bisogna coinvolgere per spiegare che il tentativo di una riforma - liberale, rigorosa, audace - dell'alta formazione, serve per dare armi valide ai talenti per la competizione sempre più dura, che l'Italia deve affrontare. Ogni epoca genera nuovi problemi, per i quali occorrono nuove risposte.
Gli studenti possono diventare inconsapevole scudo di chi difende strenuamente l'esistente, in qualunque ambito della vita sociale. I veri conservatori, che si celano sotto il manto di ideologie le quali promettono la palingenesi della società. Si infonde vera speranza nei giovani, dando loro meno illusioni. Bisogna accompagnarli per mano nell'individuare quali sono gli interessi privilegiati e le rendite di posizione: corporazioni accademiche; groviglio di familismo nei docenti e nel personale tutto; reticoli sindacali; patti di reciproca convenienza.
Un acuto editoriale di Angelo Panebianco (Corriere della Sera, 10 gennaio 2011) rileva come nel nostro Paese la grande maggioranza sia «Stato-fila» e attende dallo Stato la soluzione di tutti i problemi. Pervicace convincimento, con i meccanismi conseguenti, che ha bloccato la crescita economica del Paese.
Idee anchilosate di un vecchio reazionario? Per memoria di tutti ricordiamo che nel 1950 la ristrutturazione dei mezzi di produzione agricola - che ridimensionò i feudi e scalfì l'egemonia dei baroni (quelli veri!) - fu attuata da un governo moderato a guida democristiana e dal ministro dell'Agricoltura Antonio Segni, politico conservatore di famiglia patrizia, che poi divenne Presidente della Repubblica. La riforma agraria è stata valutata come l'atto legislativo più importante dell'intero secondo dopoguerra.

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