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La morte di Norman non va strumentalizzata

Caro Signor Zarcone,
quando Norman fece la sua drammatica scelta mi trovavo all’Università di Pamplona. Fui informato immediatamente, pensai con angoscia a Lei e a sua moglie. Mi posi la domanda che in questi casi è giusto che le persone vicine si pongano: avrei dovuto o potuto fare qualcosa che non ho fatto? Avrei dovuto fare a Norman la promessa di una carriera universitaria? È una promessa che non ho mai fatto a nessuno. Non l’ho mai fatta perché sono solito fare le promesse che so di potere mantenere in quanto dipendono da me. So quello che sta pensando: parenti, amanti che numerose e numerosi affollano le Università – ma non dimentichi le amministrazioni pubbliche (dai comuni alle Regioni, dalle Province alle aziende sanitarie) – dove li metto? Non ho nessuna intenzione di negare l’evidenza. Il problema esiste ed è grave. Le dico il mio pensiero: se vogliamo uscirne fuori bisogna evitare di usare astrazioni generiche (baroni, sinistra, destra, eccetera) e imparare a praticare il principio della responsabilità personale. Mi può indicare un episodio della mia biografia professionale che non renda credibile la mia condanna del familismo politico e accademico? Sono pronto a parlarne, se vuole anche pubblicamente. Naturalmente chiederò ai miei interlocutori di fare altrettanto.
Sarebbe stato corretto fare una promessa che sapevo di non potere mantenere? E, magari dopo anni di sacrifici, a età avanzata, dirgli: «Mi dispiace, caro Norman, ma non ci sono le condizioni per un tuo inserimento nei ruoli accademici». Lo considererebbe un comportamento corretto? E, spero mi creda, le qualità di Norman sulla promessa non fatta c’entrano niente. Non so se Norman gliel’ha mai detto, ai dottorandi dico sempre: non vivete i tre anni di dottorato come trampolino di lancio di carriere universitarie, non è ragionevole pensare che ciascun anno si formino otto professori di filosofia del linguaggio, organizzatevi quindi in modo che i tre anni di ricerca e il titolo finale di dottore possiate spenderli in altri contesti lavorativi. Sono parole non piacevoli ma oneste.
La domanda rimane: avrei potuto o dovuto fare qualcosa che non ho fatto? A lei consta che anche una sola volta io un altro dei docenti abbiamo per un qualche pregiudizio o per presunto sentimento di non simpatia emarginato Norman? Io non ricordo ma, se è a conoscenza di qualche episodio, mi aiuti a ricordare. Siamo pronti a metterci in discussione e, se fosse necessario, a chiedere pubblicamente, anche se tardivamente, scusa.
Lei sotto la spinta del suo immenso dolore ha lanciato una accusa che mi ha dato fastidio perché non ne avevo ben capito il senso: la morte di Norman è stato un omicidio di Stato. Ho rimuginato a lungo la sua terribile accusa. Sono arrivato alla conclusione che lei ha ragione, purché si dia a Stato il suo esatto contenuto. Lo Stato non può certo essere rappresentato da un dottorato di ricerca, lo Stato è anzitutto il governo, è il Parlamento. Lei ha ragione, lo Stato sta uccidendo un’intera generazione, la generazione di Norman, rubandole la speranza di un futuro in cui ciascun giovane possa progettare le proprie legittime aspirazioni.
Giovedì, 16 settembre, quando c’è stata la manifestazione in facoltà per Norman ho percepito un clima eccessivamente politicizzato e del tutto inadeguato alla tragicità dell’accaduto. Ho preferito non partecipare. È stato diffuso un volantino con cui «Gli amici di Norman» protestavano per l’assenza del Rettore, dei professori e dei dottorandi. Caro signor Zarcone, non mi sono pentito di non essere stato presente. Non voglio ricordare Norman come bandiera di una parte politica contro un’altra o di protesta contro i cosiddetti baroni. I baroni vanno (andiamo) criticati e smascherati. Senza indulgenza. Gesti tragici come quello di Norman hanno però una misteriosa solennità che da parte mia non intendo svilire trasformandola in merce politica. La solennità metafisica del gesto, che non condivido, Norman l’ha scritta negli appunti che Lei ha reso pubblici. «La libertà di pensare è anche la libertà di morire». E ancora: «Mi sto accingendo a fare una forma di esperienza, peccato non la possa comunicare». Oso pensare che l’anima filosofica e dostoieskiana di Norman si senta offesa dalla lettura politica del suo gesto.
*Direttore del Dipartimento di Filosofia

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