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Il tempo dell'emergenza è arrivato

Oggi possiamo dirlo, senza enfasi. È arrivato il tempo dell'emergenza. La pesante manovra di tagli e riduzione del deficit, varata dal Consiglio dei Ministri, vorrebbe mettere al riparo l'Italia dal rischio del contagio della Grecia. Ci sarà tempo e modo di valutare nel dettaglio le singole misure. Oggi possiamo tuttavia distillarne la portata reale.
È bene che l'opinione pubblica prenda contezza di quanto succede. Qui, per dirla chiaramente, non si possono più chiedere nuovi fondi e neppure si può fare conto sui livelli di spesa attuali. Quello che il Governo (e presto il Parlamento) chiede agli italiani è un concreto passo indietro. Se fino ad oggi abbiamo speso cento, da domani si spenderà novanta. Su questa linea non ci sono margini di trattativa. Ci andrebbero di mezzo l'Europa e lo stesso euro, a cominciare dagli anelli deboli della catena, qual è l'Italia a causa di un pesantissimo debito pubblico.
La recente legge «finanziaria» varata dall'Ars ha stanziato circa 400 milioni di euro per sostenere lo sviluppo e ben 1.200 milioni per coprire, in parte, i costi del precariato. Sorge allora spontanea una domanda: la Sicilia si colloca al di fuori dei problemi (e dei sacrifici) del Paese, o piuttosto, proprio per la sua intrinseca fragilità e per la pratica invalsa di gonfiare oltre ogni misura la spesa improduttiva, rappresenta l'ultimo vagone di un treno acciaccato e deragliante? Con frase abusata, si potrebbe dire: buona la seconda! Ma non basterebbe. Se è vero che la «percezione» della crisi in atto sta generando, per tutta risposta, una pletora di disegni di legge, tutti accomunati da un filo comune: immettere a vario titolo nuovo precariato, ovviamente a carico del bilancio regionale della Sicilia. Né sembra risolutoria l'idea di chiedere semplicemente una deroga al patto di stabilità.
Il problema non riguarda, infatti, l'assenso statale a fare nuove spese. Il problema è che i fondi per nuove spese proprio non ci sono. Un Paese (l'Italia), una parte importante di esso (il Mezzogiorno), alcune aree più critiche (la Sicilia), vivono al disopra delle proprie possibilità. Ignorare questa evidenza forse potrebbe servire a mettere al riparo i siciliani da una traumatica realtà ma, senza incidere sulla soluzioni, alla fine avvicinerebbe la crisi finale.
Con il federalismo alle porte, solo la cultura dello sviluppo e dell'efficacia della spesa pubblica ci possono salvare. Certo non è credibile che migliaia di persone vengano «cestinate» senza alternative. Si impone allora un percorso diverso. Per chiedere qualche cosa allo Stato, occorre dare qualcosa in cambio: mettere a profitto la spesa pubblica, assicurando vantaggi reali e tangibili alla Collettività. L'area che meglio si presta è quella dei servizi pubblici: rifiuti, trasporti, gestione idrica, servizi socio-assistenziali, sono i punti di maggiore criticità e dove con un recupero di efficienza si innalzano i livelli di welfare per i cittadini e si stimolano, al contempo, l'innovazione e la produttività dei settori economici.
Oggi non basta più chiedersi se l'acqua debba essere pubblica o privata, ma serve chiedersi cosa fare per garantire il servizio ed al prezzo più basso. Nessuno ama dirlo a voce alta ma abbiamo troppi dipendenti nei servizi pubblici, una spesa elevata, una dequalità tangibile e un latente assenteismo. La Direzione di questo Giornale ha suggerito tempo fa una soluzione: politiche di sorveglianza. Quanto meno bisognerebbe partire da qui.

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