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Una manovra necessaria per l'Europa




La manovra varata ieri è gigantesca: venticinque miliardi di euro. Per dimensione sta al secondo posto nella storia del dopoguerra. Subito dopo quella da novantamila miliardi di lire che Amato fu costretto a varare nell'estate '92. Serviva a saldare i conti con la favola della "Milano da bere" e dell'«Edonismo reaganiano» che aveva dominato la scena per tutti i ruggenti anni '80. Quella di oggi, chiude definitivamente il capitolo dei «pasti gratis». L'oste, sotto forma di attacco speculativo contro l'euro, ha presentato il conto. Molto salato.  È stato un conto presentato a tutta l'Europa che, negli ultimi quarant'anni ha vissuto ben al di sopra delle sue possibilità: welfare generoso, sanità spendacciona, pochi anni di lavoro e, soprattutto, scarsa produttività. La Grecia è stato l'anello debole della catena. La tenuta della Spagna è incrinata. Il Portogallo è in affanno e l'Irlanda rischia di affondare nel Mare del Nord. L'Italia contrariamente a tutti pronostici sta tenendo. Nonostante l'ampiezza del suo debito pubblico. Una dimostrazione, finalmente, che questo è un grande Paese. Ed è tale per la qualità della sua popolazione, per la forza delle sue imprese, per la prudenza dei suoi risparmiatori.  Per rotta serve adesso tenere il timone ben saldo. Né vale la considerazione che la manovra era stata smentita fino a poche settimane fa. Ora invece diventa indispensabile. In poche settimane il mondo è cambiato un'altra volta. La crisi della Grecia ha aperto una ferita nel cuore dell'Europa. Una malattia che rischiava di infettare l'euro. Andava posto un argine che non poteva essere circoscritto ad un solo paese o ad un gruppetto di essi. La diga doveva estendersi per tutto lo spazio necessario allo scopo di tenere al sicuro la moneta. Un patrimonio che non è dei greci, degli spagnoli o dei tedeschi. È una ricchezza comune. E infatti la risposta è stata corale. I Paesi del club euro hanno varato a tutta velocità drastiche manovre di risanamento. Con la mazza ferrata laddove la situazione era deteriorata. Più dolcemente altrove. Il ministro Tremonti ha usato il guanto di velluto sul pugno di ferro. Ha evitato di infiacchire sanità e welfare. Ha affondato il coltello nelle inefficienza della pubblica amministrazione. Ha strizzato la finanza locale. Per ottenere determinati servizi i cittadini dovranno pagare. Finalmente potrà essere misurata l'efficienza dei Comuni: i migliori chiederanno un semplice rimborso spese.  Gli altri saranno costretti a tartassare ancora di più i cittadini. Verranno ridotte le finestre pensionistiche e avviata la parificazione a 65 anni dell'età per lasciare il lavoro fra uomini e donne. Difficile non essere d'accordo a fronte del progressivo invecchiamento della popolazione. E l'universo femminile deve imparare che se è giusto chiedere la parità dei diritti bisogna impegnarsi nell'uguaglianza dei doveri. Eticamente corretto il giro di vite sugli assegni di invalidità. Moriranno un po' di enti inutili. Verrà messo a contribuzione il patrimonio edilizio «fantasma». Non è elegantissimo ma è efficace. Altrimenti quelle case non avrebbero mai pagato un centesimo di tasse. Tremonti ha condito la minestra con un po' di pepe: il taglio delle auto blu, la riduzione degli stipendi dei ministri, una dieta rigidissima per convegni, sponsorizzazioni, mostre e missioni. Il risparmio è modesto. Il ritorno d'immagine immenso.

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