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La paralisi della riforma Gelmini

Verso il porto delle nebbie. E' questo l'incerto approdo del Ddl di riforma dell'università proposto dal ministro Mariastella Gelmini. Ma la nuova legge sul riordino del sistema accademico rientra nell'agenda delle cose possibili? Un ideale marinaio, dall'alto della coffa dell'albero maestro, vede una navigazione in un mare periglioso e immerso nelle brume, che può portare a un naufragio culturale.


Raffica di emendamenti

Non solo per i sussulti e gli smottamenti dell'attuale momento politico. Infatti, non appena nei giorni scorsi il decreto Gelmini ha iniziato il suo itinerario parlamentare nella competente commissione del Senato, si è trovato a fronteggiare un bombardamento di artiglieria di ben 828 emendamenti. Si aggiunge, dopo un periodo di bonaccia, il riproporsi di assemblee, agitazioni, documenti di studenti, docenti, ricercatori.
È naturale che un testo di legge possa essere migliorato o emendato. Ma queste plurime e pervicaci volontà politiche di mutamento mirano alla sostanza e ai fondamentali del progetto. Gli esiti possibili sono due: lo stravolgimento del disegno di legge, ovvero - più probabilmente - la paralisi con conseguente mancata approvazione. Un déjà-vu. La solita tela di Penelope che impedisce, da circa 50 anni, una riforma organica del nostro sistema accademico, ormai inadeguato. Vogliamo ricorrere, con ottimismo, al paradosso di Tocqueville, alla catastrofe come resurrezione.


Dal primato al degrado

L'università è nata in Italia, con l'Alma Mater di Bologna nel 1088. Malgrado questa primazia le nostre università non sono più alla sommità del sistema internazionale da circa quattro secoli. Un recupero si ebbe con il Risorgimento, perché in quell'epoca un'intera generazione di studiosi - da Cannizzaro, ad Avogadro, a Meucci, a Quintino Sella - contribuirono, anche arruolandosi nei battaglioni, alla lotta per uno Stato moderno basato su cultura e scienza d'avanguardia. Le fruttuose conseguenze e i positivi risultati durarono sino alla prima metà del secolo scorso. Da allora una serie di provvedimenti scoordinati e senza risorse aggiuntive hanno determinato: eliminazione della libera docenza; abolizione degli assistenti e introduzione di professori associati e ricercatori, cui si aggiungono variegate docenze liquide e precarie; chiusura degli istituti e sostituzione con i dipartimenti; liberalizzazione degli accessi; introduzione dell'autonomia didattica e amministrativa; diversificazione di diplomi e lauree; moltiplicazione delle sedi e dei corsi di studio; scarsa competitività. Un "degrado per allargamento" secondo un'espressione dei sociologi. Le conseguenze sono così sintetizzabili: molti atenei sono sull'orlo del fallimento; localismo e provincialismo; meritocrazia disattesa; basso livello di parte degli studi; risorse sempre più scarse.



Università di massa


Due soli esempi. La trasformazione del privilegio in diritto, che correttamente Simonetta Fiori (La Repubblica, 14 aprile 2010) ascrive alle classi intellettuali e politiche progressiste - di radice cattolica, comunista e liberal-democratica - le quali hanno perseguito l'illusione egualitaria che, per sconfiggere il privilegio e affermare il diritto, sarebbe bastato allargare l'università di élite in università di massa, senza selezione o merito e senza differenziazione di studi al suo interno. Con slogan populistici: una laurea per tutti, un lavoro per ciascuno. Penalizzando il merito si disgrega il potenziale di crescita del sistema economico-sociale italiano. Ulteriore elemento. La spesa media annua dell'Italia per uno studente universitario è di 8 mila dollari, mentre la media dei Paesi Ocse è di 11.500 dollari, per arrivare ai 20.000 di Svizzera e Stati Uniti. In tutti i Paesi del mondo industrializzato, in Europa come negli USA, come in Asia, oggi si investe sempre più su scuola, alta formazione, ricerca. Gli italiani - bisogna purtroppo constatarlo - preferiscono un'istruzione mediocre, con proliferazioni di sedi distaccate, corsi effimeri di basso livello, programmi ridotti tipo "bignami", per ottenere in ogni modo il "pezzo di carta" della laurea, purchè prevalga il familismo geografico. Tutti sotto lo stesso tetto: nonni, papà, mamme, figli. Questa autoreferenzialità provinciale e di basso conio determina ignoranza e impedimento rispetto a soluzioni che, nei Paesi più avanzati, sono state messe in atto da molti e molti anni, con il pericolo immanente di restare indietro, anche per le generazioni future.


La valutazione di Visco

La riforma Gelmini è il primo progetto di riforma organica del sistema universitario da circa mezzo secolo. La proposta dell'attuale ministro ha ottenuto da molti una valutazione "non negativa", evidenzia l'ex ministro Vincenzo Visco, personalità certamente non sospetta di simpatie politiche per il governo.  Abbiamo già segnalato, in precedenti articoli i punti condivisibili del Ddl: bonifica economico-finanziaria e controllo dei bilanci; allocazione differenziata dei fondi pubblici; iniziali progressi nel reclutamento; valutazione con verifica della didattica e della ricerca; meritocrazia; qualità. Alcuni punti lasciano perplessi e sono sicuramente da migliorare: il nodo dei finanziamenti e investimenti, poichè a costo zero non si fanno riforme; lo svuotamento di compiti del senato, in quanto al corpo accademico spetta la parola finale sull'indirizzo strategico; l'elaborazione di requisiti minimi, che possano evitare l'apertura incontrollata agli esterni nel consiglio di amministrazione; l'unione solo su base numerica dei dipartimenti, che può snaturare discipline scientifiche e ricerca; la soluzione del problema dei ricercatori, pur senza ope legis o sanatorie; l'accorpamento di facoltà, dipartimenti e corsi di laurea, confuso nella struttura e nelle finalità.


Tornare al merito

Ma la vera riforma di base è concettuale, in accordo con Andrea Graziosi (L'università per tutti, Il Mulino editore): l'università è nata e opera per gli studi - come recita il nome di tanti atenei, universitas studiorum - e non esclusivamente per gli studenti, spesso scarsi di merito e ricchi di bisogni, dato che l'utente finale è la società nel suo complesso.
Bisogna traghettare verso il merito e puntare sul capitale umano. La Costituzione - la nostra Bibbia civile - afferma che la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica, ma all'art. 34 parla di "capaci e meritevoli". L'istruzione offerta dall'università non è solo un bene pubblico, ma piuttosto un bene meritorio.
In quest'ottica di maggiore rigore, selezione, meritocrazia e qualità, Graziosi avanza due proposte certamente provocatorie e contro-corrente: le lauree triennali non dovrebbero dar diritto al titolo di "dottore"; scorporare dal sistema universitario nazionale il settore di istruzione superiore professionale, affidandolo alle regioni. Una vera e propria agenda pedagogica. Bisogna far presto. È necessaria una terapia d'urto, per difendere il carattere alto dei saperi e della ricerca intellettuale, contro clientelismi e familismi. Sul battello del sistema universitario ci siamo tutti. Se si affonda significa abbandonare l'idea di investire sulla classe dirigente di domani. E il naufragar sarà amaro in questo mare, ribaltando il famoso verso del poeta.

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