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Crisi: istruzioni per non ripeterla

È stato un uno-due quasi pugilistico, diretto a convincere i mercati che il governo di Atene, l'Unione Europea, il Fondo monetario internazionale e la Bce fanno finalmente sul serio nel tentativo di salvare la Grecia dalla bancarotta e l'Euro da una crisi dalle imprevedibili conseguenze. Al mattino, il primo ministro Papandreu ha annunciato il programma di austerità più severo che un Paese europeo abbia mai conosciuto in tempi moderni, con tagli alla spesa pubblica, aumenti di tasse e decurtazioni di stipendi per 30 miliardi, che porteranno a una recessione del 4% nel 2010 e del 2,6% nel 2011 e dieci anni di tutela da parte del Fondo, ma sono - a suo dire - indispensabili per evitare una catastrofe. Nel pomeriggio, la comunità internazionale ha risposto dando luce verde, dopo settimane di tentennamenti, a un «pacchetto» di prestiti del valore di 110 miliardi spalmati su tre anni (cioè due volte e mezzo la proposta iniziale di 45 miliardi), che - se tutto andrà per il verso giusto - consentirà alla Grecia di fare fronte ai suoi impegni senza una ristrutturazione del debito o un default suscettibili di provocare una reazione a catena. Se non si fosse aspettato tanto, passando all'azione solo dopo che i Buoni del tesoro greci sono stati degradati a «spazzatura» e il loro rendimento ha sfiorato, a un certo punto, il 20 per cento, il salvataggio sarebbe costato meno ed avrebbe avuto maggiori probabilità di successo. Ma le resistenze della Germania, la complessità del processo decisionale e un comprensibile risentimento nei confronti di una Grecia che ha vissuto troppo a lungo al di sopra dei propri mezzi hanno rinviato tutto all'ultima ora. La signora Merkel, che voleva intervenire solo dopo le elezioni regionali in Renania-Westfalia, ha accettato di affrettare i tempi solo quando si è convinta che un crack greco, con possibili ripercussioni su Portogallo e Spagna, avrebbe potuto avere sulla moneta unica gli stessi catastrofici effetti del fallimento Lehmann sul sistema bancario e costare alla Germania più del salvataggio stesso. Ancora oggi, comunque, la Cancelliera ha avvertito che la Germania esige, per mantenere l'impegno, un rigoroso rispetto dei patti e una modifica delle regole.
Bisogna dire che la scarsa propensione dei tedeschi (e di molti altri europei) ad aprire i cordoni della borsa per tirare i greci fuori dai guai era più che comprensibile alla luce dei conti di Atene: bilanci statali «truccati» che nascondevano un quarto del deficit, uno Stato ipertrofico che impiega a vita - con stipendi eccessivi - un terzo dell'intera forza lavoro, una corruzione elevata a sistema e una evasione fiscale valutata a 30-40 miliardi con aspetti addirittura grotteschi: il NewYork Times racconta per esempio che, quando l'ufficio delle entrate ha tentato un censimento delle piscine nel quartiere più elegante di Atene, solo 324 proprietari su 16.974 si sono denunciati. Ora, si profila la possibilità che i greci rifiutino di sottostare al regime «lacrime e sangue» che li aspetta: il sindacato dei dipendenti pubblici ha già annunciato che si opporrà con tutti i mezzi ai tagli, per mercoledì è annunciato uno sciopero generale e l'appello di Papandreu al patriottismo e al senso di responsabilità non ha finora raccolto grandi consensi. Tutti sostengono, a torto o a ragione, che a pagare devono essere altri, per esempio i grandi armatori che hanno basato le loro flotte nei paradisi fiscali. Accettare i sacrifici richiesti da quella che la piazza ha già battezzato «la giunta europea» e - probabilmente - anche una serie di licenziamenti sia nel settore pubblico sia in quello privato, comporterebbe in effetti una specie di rivoluzione culturale, una drastica quanto immediata modifica dei costumi e dello stile di vita per cui esistono pochi precedenti. Il voto sui provvedimenti di austerità è previsto in settimana, comunque prima del 9 maggio in cui Atene dovrà rifinanziare 8,5 miliardi del suo debito. Papandreu dispone di 160 deputati su 300, e potrebbe ottenere anche qualche voto dall'opposizione, ma più di un no del Parlamento, si teme un no del popolo.
Il primo - e forse più importante - giudizio verrà comunque oggi dai mercati. A tremare non sono solo i greci, ma anche i portoghesi, gli spagnoli, gli irlandesi e a cascata tutti gli altri, perché i Bot greci figurano nei portafogli delle banche di molti Paesi e nei patrimoni di molti fondi. Gli intrecci della finanza internazionale sono tali che perfino il povero Portogallo ne possiede per 10 miliardi (e a sua volta ne deve 86 alla Spagna). Ma è chiaro che la lezione greca, cioè la costatazione dell'impossibilità di mantenere privilegi, sprechi e abitudini non più compatibili con i tempi, vale per quasi tutti gli europei, compresi noi italiani: per stavolta la crisi ci ha solo sfiorato (qualche giornale si ostina a metterci tra i Paesi a rischio, ma gli organismi internazionali ci hanno difeso) ma se non faremo le riforme e soprattutto continueremo a perdere produttività e competività un giorno anche a Roma un presidente del Consiglio potrebbe dovere presentarsi in tv e chiedere «grandi sacrifici».

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