Va detto che considerando la
location, ovvero lo spazio più nero del nero, "Gravity" di
Alfonso Cuaron tiene incollati alla sedia. E questo non è poco,
visto che anche i due attori protagonisti, astronauti Usa, sono
quasi sempre in una tuta spaziale d'ordinanza che mostra solo il
viso. Insomma il film d'apertura della 70esima Mostra
Internazionale d'Arte Cinematografica e ora nelle sale italiane
distribuito dal 3 ottobre dalla Warner ha un suo fascino. Di
scena una Sandra Bullock (la dottoressa Ryan Stone) protagonista
assoluta e George Clooney nei panni del veterano Matt Kowalsky,
maschio tutto battutine e lazzi, nel ruolo stereotipato di chi è
destinato a salvare e tranquillizzare la 'fragilè dottoressa
(capacità, purtroppo, quella di Clooney che non manca di avere
anche dopo morto). Tante scene al cardiopalma vissute nel vuoto più vuoto e in
Gravity soprattutto una teoria del tutto vera e scientifica
della NASA, quella della sindrome Kessler in base alla quale la
densità di oggetti creati dall'uomo che circolano nella bassa
orbita terrestre è così alta che se due oggetti si scontrassero
ne deriverebbe una cascata di rottami che andrebbe a urtare
altri oggetti e ogni collisione genererebbe nuovi rottami
spaziali in un infinito effetto domino.
«Abbiamo utilizzato questa teoria come metafora per le
avversità della vita. Il nostro personaggio scivola nel vuoto,
tentando di superare la sua stessa inerzia per fare ritorno
sulla Terra dove l'attende qualcosa che sta oltre la
sopravvivenza: la possibilità di rinascere» ha sottolineato
Cuaron al Festival di Venezia.
Per il regista messicano Alfonso Cuaron, «la sfida più
grande è stata raccontare come reagiscono le cose e gli attori
senza gravità. L'ambientazione più difficile in assoluto. Gli
attori dovevano entrare nell'idea che erano senza peso e capire
come si comportano gli oggetti in questa situazione. Per fare
questo abbiamo avuto vari consulenti astronauti, ma anche
esperti di fisica, perchè la reazione degli oggetti nello spazio
è del tutto contro-intuitiva».
Il film, comunque, conclude il regista, è la metafora di
tante cose: «Si parla di rinascita, del senso della morte,
della sua accettazione e di personaggi che vivono come in una
bolla e che, per ripartire, devono piantare i loro piedi bene a
terra».
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