I cieli tersi e le cime innevate, ma soprattutto la luce speciale di una terra in cui l'aria è rarefatta e la natura è padrona assoluta. I volti fieri e i sorrisi accoglienti di donne e uomini che con dignità portano sulle spalle la fatica di una vita semplice e senza agi, fatta di lavoro e antiche tradizioni. E ancora, tra riti e processioni, mani giunte e luoghi sacri, reliquie e coloratissime bandiere di preghiera mosse dal vento, la spiritualità profonda e serena, emblema di un popolo dalle mani operose e dai pensieri altissimi, capace di accettare ogni mistero dell'esistenza come un dono.
E' un viaggio nell'autenticità e nella grande umanità del "tetto del mondo" la mostra di Han Yuchen "Tibet. Splendore e purezza", in programma a Roma, a Palazzo Bonaparte dal 14 luglio al 4 settembre. L'esposizione, che segna la prima volta a Roma del maestro cinese della pittura a olio contemporanea, presenta al pubblico 40 tele di vario formato in cui Yuchen, con un segno limpido e poetico, svela e omaggia quella che egli stesso definisce la sua "ossessione": il Tibet - con la sua gente, i suoi paesaggi e la sua cultura millenaria -, diventa nella trasfigurazione artistica un luogo dell'anima, forse un eden irraggiungibile e separato da tutto, ma anche un invito a ritrovare valori ormai perduti, nella critica costante a una società globalizzata cieca e sorda di fronte ai bisogni più intimi dell'uomo.
A cura di Nicolina Bianchi e Gabriele Simongini, organizzata da Arthemisia, la mostra - originariamente prevista nella primavera del 2020 e poi rimandata per la pandemia - si divide in tre sezioni, Paesaggi, Ritratti e Spiritualità, nelle quali evidente appare la maestria pittorica di Yuchen, che alterna opere dai tratti più sfumati ad altre caratterizzate da una precisione quasi fotografica. Come afferma il curatore Gabriele Simongini all'ANSA, "quello di Yuchen è un realismo etico che offre un modello ideale per una vita più semplice e spirituale", sottolineando quanto la sua pittura riveli da un lato lo studio accurato "dei maestri europei dell'800, tanto che in alcune tele più grandi sembra di rivedere Gustave Courbet, ma anche l'influenza della sua formazione da fotografo, soprattutto nel taglio e nella precisa composizione di alcuni lavori". Sia nel segno più sfumato che in quello più "fotografico", il grande talento di Yuchen è senza dubbio il saper restituire all'occhio di chi guarda autentici istanti di vita vera: in qualunque modo egli decida di dipingere - il suo metodo di lavoro è duplice: i quadri sono il frutto più "studiato" di una dettagliata campagna fotografica, oppure realizzati in diretta, en plein air - l'artista riesce a raccontare la realtà con una rappresentazione accurata e verosimile, ma anche a svelare quello che di più profondo e "immateriale" si nasconde nella cultura tibetana. Passeggiando tra i suoi lavori, si viene investiti da un'onda di serenità e forza, di determinazione e austera dolcezza: ne sono prova le rappresentazioni della natura indomita e intransigente, i meticolosi dettagli delle vesti tradizionali, degli ornamenti e degli oggetti di uso quotidiano, così come le scene corali, talmente autentiche che sembrano rendere anche il movimento, e soprattutto l'attenzione all'espressione del volto e all'intensità dello sguardo nei tanti ritratti esposti, in particolar modo quelli femminili.